Quando si pensa alla fotografia italiana tornano alla mente nomi quali Bragaglia, Giacomelli, Ghirri, Basilico o Jodice e i loro scatti più iconici, ma poco si conosce dell’evoluzione storica che questo linguaggio artistico ha compiuto nel nostro paese durante gli ultimi 100 anni.
Quali sono gli ambiti in cui i fotografi italiani si sono distinti e hanno dimostrato una loro autonomia di pensiero rispetto ai colleghi stranieri?
Da oggi e per tre puntate indagheremo, allora, proprio questa ricchezza di creatività, partendo dai primi anni del Novecento per arrivare ai giorni nostri. Scopriremo insieme che la fotografia italiana nasconde un mondo straordinario fatto di autori dimenticati o solo parzialmente conosciuti, che hanno lavorato con caparbia sensibilità e grandissima abilità.
Pittorialismo: tramonti e contadinelle
L’Ottocento fotografico si chiude in Italia con una fiorente quanto ripetitiva industria della fotografia da souvenir legata alla produzione di Anderson, Alinari e Sommer: scatti realizzati in altissime tirature per compiacere il pubblico straniero, che immortalavano stereotipando monumenti e paesaggi del Bel Paese.
Sulla scia dei fermenti in atto a livello europeo, nei salotti torinesi un ristretto gruppo di dilettanti, tutti facoltosi e molti dei quali nobili, diede vita ad un movimento pittorico conosciuto col nome di Pittorialismo.
Attivi in Francia e Gran Bretagna i Pittorialisti rivendicavano la centralità artistica della fotografia da loro considerata una tecnica in grado di competere con le altre arti nobili e non una meccanica riproduzione della realtà.
Stampe flou ed effetti sgranati, realizzati con raffinate tecniche che prevedevano l’uso della gomma bicromata o del bromolio, finivano per annullare l’immagine dandole l’aspetto di un acquerello o di un’incisione.
Nonostante gli intenti fossero nobili, i risultati di tali sperimentazioni furono mediocri. Accecati dalla volontà di elevare la fotografia all’arte, persero di vista le potenzialità del mezzo e finirono per snaturare il suo essere. Le pagine della rivista di riferimento dei Pittorialisti italiani “La Fotografia Artistica” (1904-1917) risultarono costellate di immagini sfuocate di contadine e pascoli al tramonto: visioni languide e sentimentali, ancorate ad un secolo passato e totalmente distaccate dalla realtà intrisa dell’acre presagio di un conflitto alle porte.
Questo movimento, fatti salvi pochi nomi come Guido Rey (1861-1935) o Riccardo Peretti Griva (1882-1962) in Italia ha rappresentato un elegante esercizio stilistico privo di quella spinta alla modernità riscontrabile tra le pagine di “Camera Work” (1903-1917), rivista di riferimento dei pittorialisti americani e incubatrice di un nuovo modo di “fare” fotografia.
Roma: due donne, il Fascismo e il vortice futurista
Ai primi del Novecento la città di Roma era un centro cosmopolita, con i suoi nobili, il mondo delle ambasciate e il Vaticano. Il luogo ideale per aprire uno studio fotografico.
In città erano già attivi diversi ateliers, ma sarà lo stile fortemente personale di due ritrattiste, straniere e fortemente determinate a garantire il loro successo: Eva Barrett e Ghitta Carell, imprenditrici ante litteram, colte e tecnicamente preparate.
“I vostri amici possono comprare tutto ciò che voi potete dar loro meno che la vostra fotografia”, proclamava Eva Barrett.
Giunta a Roma dall’Inghilterra nel 1913, Eva Barrett (1879-1950) rese il suo studio fotografico un punto di ritrovo per la nobiltà dell’epoca e le famiglie reali europee. Come ci riuscì? Barrett elaborò una versione personale del crayon portrait che si distinse per la particolare raffinatezza nell’esecuzione.
Questo particolare effetto, ottenuto ritoccando la fotografia, dava spesso risultati piuttosto grotteschi in quanto l’uso del colore o della matita il più delle volte snaturavano l’immagine originaria rendendola irriconoscibile. Eva Barrett, invece, applicando pochi leggeri tratti di matita riuscì a realizzare immagini sottotono ma dai neri particolarmente densi, mantenendo i caratteri propri del ritratto fotografico.
La sua fama fu lentamente adombrata da quella di un’altra fotografa, Ghitta Carell (1899-1972), acclamata per il suo stile moderno. Ungherese, frequentò a Firenze una nutrita cerchia di intellettuali e artisti, prima di stabilirsi nel 1928 a Roma. La sua clientela era in parte comune a quella della concorrente inglese sebbene il mondo borghese e politico legato agli alti vertici del fascismo preferisse il suo stile più moderno.
Prive di fronzoli ed aggiunte (nascoste comunque nei sapienti ritocchi dei negativi), le immagini erano dirette e avvolgenti grazie anche al sapiente dosaggio della luce.
Le parole di Roberto Dulio mettono a fuoco la complessità della sua produzione: “Il lavoro di Ghitta Carell leviga una sintesi espressiva che salda, in accattivante dialettica, le tensioni e i contrasti tra avanguardie e tradizione che segnano il dibattito artistico dell’epoca fascista”.
Lei ebrea immortalò innumerevoli gerarchi e anche lo stesso Mussolini. Un legame con il potere ambivalente, il suo, che se da un alto le permise di salvarsi durante le leggi razziali restando a Roma, dall’altro bollò a lungo negativamente il suo lavoro.
Il bel mondo romano aveva un altro fotografo di riferimento in quegli anni, Elio Luxardo (1908-1969).
Impegnato anche lui nella ritrattistica, dimostrò il suo vero talento nell’esplorazione visiva dell’anatomia umana anticipando le poetiche della body art. A lungo confinato nella retorica fascista dell’esaltazione dell’atleticità del corpo, Luxardo superò questi limiti indagando in maniera quasi morbosa i dettagli delle fasce muscolari, dei busti e delle schiene. Il volto non trovava spazio nei suoi scatti, sempre più orientati ad intensificare quell’effetto scultoreo dei corpi che nei primi anni ‘80 sarà protagonista nei lavori di Robert Mapplethorpe.
Il dibattito italiano sulla fotografia raggiunse un’eco internazionale grazie ai fratelli Anton Giulio (1890-1960) e Arturo Bragaglia (1893-1962) e alla pubblicazione nel 1911 del saggio Fotodinamismo futurista. Nella prefazione si leggeva: “…ci piace inoltre di far osservare che non siamo fotografi e ci troviamo ben lontani dalla professione di fotografi”.
Il testo più innovativo sulla fotografia negava la sua essenza e poneva le basi dell’arte concettuale che dì lì a poco avrebbe ribaltato ogni canone estetico. Ben descrive Antonella Pelizzari la poetica della fotografia di Anton Giulio Bragaglia: “L’assenza dell’elemento descrittivo, ottenuta con la macchina fotografica, spostava le sue fotodinamiche sul piano dell’arte contemporanea, pulsante come la vita moderna.”
Nel 1930 Tato e Marinetti proponevano nuovi spunti alle riflessioni di Bragaglia con il Manifesto della fotografia futurista. L’eredità in Italia della lezione modernista dei futuristi fu particolarmente ricca di autori di diversa esperienza e formazione che riuscirono a miscelare idee e tecniche per creare nuove visioni fotografiche. Artisti, architetti e pubblicitari, innestarono la fotografia in altri linguaggi dando vita a lavori e progetti innovativi e di straordinaria modernità. Questo periodo d’oro della creatività fotografica, ad oggi sottostimato e poco studiato, annovera tra i suoi grandi maestri Bruno Munari, Marcello Nizzoli, Mario Castagneri, Luigi Veronesi, Franco Grignani e Carlo Mollino.
Bisognerà attendere in Italia gli anni Settanta per ritrovare un legame così forte e produttivo tra le arti e il linguaggio fotografico.
La ricostruzione: neorealisti e paparazzi
La fotografia postbellica, allo sgretolarsi della visione eroica del fascismo, si trovava di fronte un paese devastato dalla guerra, povero ed arretrato. Molti fotografi ritennero opportuno impegnarsi nella lettura di quella situazione, molto diversa da quella figurata dall’informazione che il regime aveva diffuso tramite le immagini dell’ente di propaganda, l’Istituto Luce. Il massiccio impiego della fotografia da parte della stampa di regime aveva dimostrato come l’informazione non potesse più intendersi tale senza un appropriato corredo di immagini.
Alcune riviste come Tempo (1939), Il Mondo (1949) o Epoca (1950) permisero ai fotografi di far conoscere il proprio lavoro ad un pubblico sempre più vasto.
Mario Pannunzio, direttore del Il Mondo, poneva grande attenzione alla qualità fotografica e permise a Enzo Sellerio, Gianni Berengo Gardin, Fernando Scianna di pubblicare i propri scatti accanto ai nomi più noti del fotogiornalismo internazionale dell’epoca quali Robert Capa o Henri Cartier-Bresson.
Nelle pagine di Tempo Federico Patellani (1911-1977) illustrò la situazione di degrado e arretratezza in cui versava il Paese, con veri e propri racconti per immagini dove il testo era decisamente minoritario rispetto all’immagine. Non tutti gli editori erano così attenti al lavoro dei fotografi e raramente le immagini pubblicate riportavano il nome dell’autore dello scatto.
Questi autori, che si tende a classificare come neorealisti, un termine d’effetto legato dal cinema e ancora per molti non del tutto pertinente alla fotografia, cercavano con stile e punti di vista differenti di interpretare il proprio tempo prediligendo le tematiche dell’attualità connesse alle città o alle campagne in trasformazione.
I fotografi che in qualche misura hanno abbracciato le tematiche neoreoliste, o meglio umaniste, furono: Mario De Biasi (1923-2013), attivo a Milano e assunto dalla redazione di Epoca già dal 1953, affezionato alla sua città e alle tematiche urbane; Fulvio Roiter (1926-2016), veneziano, che nel 1956 ottenne l’importante Premio Nadar per il suo libro di sole fotografie Umbria. Terra di San Francesco; Nino Migliori (1926) che insieme ai progetti legati al territorio come Gente dell’Emilia (1950-1959) si dedicò all’astrazione.
Il Sud del Paese, con le sue tradizioni e contraddizioni, fu rappresentato con grande sensibilità dai lavori di fotografi quali Enzo Sellerio, Tino Petrelli, Carlo Bavagnoli e Ferdinando Scianna. Quest’ultimo realizzò il volume Feste religiose in Sicilia (1965) che resterà un punto di riferimento per le generazioni successive.
Franco Pinna (1925-1978) attivo nelle ricerche antropologiche dell’epoca, riuscì a cogliere il mondo magico e pagano della Sardegna e a mantenere uno stretto legame con il cinema fotografando le riprese di alcuni film di Fellini e Visconti.
Il “Neorealismo” in fotografia meriterebbe un nuovo approccio non semplicemente legato al tema del soggetto, ma a una più ampia visione della produzione dei singoli autori. Macerie, bambini poveri e nuove periferie furono immagini realizzate da molti, complice la maggior facilità tecnica della fotografia, con il rischio di incorrere nel patetismo e riprodurre stereotipi compiaciuti: molte sono le fotografie di quel periodo dove la retorica torna non più eroica ma moralista.
Il dopo guerra vide in Italia un altro fenomeno del tutto nuovo per la fotografia: l’affermarsi dei Paparazzi.
Avvolti dalla leggenda, che ispirò il personaggio di Fellini nel film La dolce vita, questi fotografi erano pronti ad ogni trucco e sotterfugio per riuscire a catturare un’immagine, meglio se piccante e compromettente, di divi e personalità del gossip internazionale. Le fotografie, quasi sempre rubate per strada, avevano cattiva illuminazione e pessime inquadrature, non erano certo “buone” immagini.
Ma quel momento storico che vide Tazio Secchiaroli, Marcello Geppetti ed Elio Sorci, correre per le strade di Roma, segnò un momento importante nell’uso e nel consumo delle immagini. La fotografia mise in luce tutto il suo potenziale voyeuristico, di mezzo che scruta le vite degli altri, permettendo il fiorire di una ricca e capillare stampa scandalistica. In qualche modo i paparazzi aprirono la strada anche alla street photography, offrendo inconsciamente un modello visivo più moderno e immediato della fotografia.