A trentacinque anni anche in Italia si smette di essere giovani , tanto che quest’età rappresenta una sorta di data limite, di scadenza imposta dal sistema e ancor più sentita se il campo in cui ti muovi è quello dell’arte. E dopo? Hic sunt leones, avrebbero segnato sulla loro mappa gli antichi romani, per dire che al di là di quel confine c’era l’ignoto. Un ignoto che Gianni Moretti ha recentemente “celebrato” con la sua ultima [glossary_exclude]installazione[/glossary_exclude] [glossary_exclude]site specific[/glossary_exclude] creata per la galleria Fabbri [glossary_exclude]Contemporary Art[/glossary_exclude]: Il Trentacinquesimo anno. Ottantasette fogli di carta velina nera, con interventi a stampa realizzati con inchiostro tipografico nero, che hanno ricoperto quasi completamente la Project Room della Galleria milanese.
Dopo un’iniziale sensazione di straniamento, dal nero della velina cominciano ad emergere delle vibrazioni di colore che aprono il pensiero, come ha sottolineato Martina Cavallarin, curatrice del progetto, «sui rapporti di potere, su soggettivo e collettivo, privato e pubblico, minimo e massimo espressi dalla potenza di un’opera che condiziona la percezione e dialoga in sussurrata e misurata polemica sui pesi che determinano le leggi interne ed esterne dell’universo e della sua ordinata o preordinata struttura».
Una potenza che in Moretti si accompagna sempre ad una grande delicatezza di pensiero, di materiali e di tecniche, come non ha mancato di sottolineare anche il comitato scientifico di SetUp che, a gennaio, gli ha consegnato la prima [glossary_exclude]edizione[/glossary_exclude] del Premio SetUp Under 35 per il progetto La Bell’ra (studi per un monumento all’attenzione) che, ispirato da un fatto di cronaca del 2010, nasce dalla necessità di prendere coscienza di quanto accade ogni giorno in termini di violenza: «un monumento funebre alla memoria, all’indifferenza, alla fragilità. Un progetto che parla di un tema attuale come la violenza sulle donne, trasposto in una dimensione poetica, affrontato con consapevole delicatezza, con intelligenza artistica e struttura processuale». Per conoscere meglio il suo lavoro e la sua visione artistica, lo abbiamo incontrato nel suo studio di Milano:
Nicola Maggi: In tutti i tuoi lavori quello che subito colpisce è la capacità con cui riesci a trattare con delicatezza temi attuali, complessi e spesso molto duri senza che perdano la loro potenza comunicativa. E questo anche grazie all’utilizzo di tecniche molto particolari come lo spolvero. Ci racconti dove nasce la tua ricerca e come si è sviluppata negli anni?
Gianni Moretti: «Il mio lavoro è iniziato negli anni dell’Accademia, prima di Bologna e poi di Milano. Sono sempre stato attratto non tanto da determinati materiali ma da una loro particolare caratteristica, dal loro essere, diciamo, sempre al limite del collasso. Per cui, come dicevi, lavoro sempre con materie molto delicate. La cosa che mi interessa, però, non è tanto documentare quanto interrogare il materiale che sto usando in un determinato momento e lo stesso vale per le tecniche. In primo luogo lo spolvero che è quella con cui ho iniziato e che ancora recupero spesso nei miei lavori. Lo spolvero è una tecnica che mi affascina fin dai tempi dell’Università per la sua fragilità e per il fatto di non essere pensata per essere vista da qualcuno se non dal solo artista durate il processo di realizzazione dell’affresco. Fin dall’inizio, quindi, ho iniziato ad utilizzare questa tecnica creando, con il semplice deposito di pigmento sulle pareti , delle installazioni pensate per non essere permanenti. Parallelamente a questo, però, ho accompagnato tutto il mio percorso di ricerca, fin dal 2005 (anno del suo debutto, ndr) con progetti e studi su carta che documentavano i vari lavori, preservandoli così nel tempo. Negli anni, poi, sono passato ad altre tecniche ma soprattutto ho indagato altri materiali. La cosa che mi interessa di più nel mio lavoro è che questo sia riconoscibile non tanto per una determinata tecnica o un determinato materiale quanto per un’intenzione, per un’ossessione che c’è dentro al mio percorso di ricerca. Vorrei riuscire ad indagare quanto più possibile la costante instabilità della materia».
N.M.: Questa tua attenzione per l’instabilità della materia, e della società, passa anche per una tua rilettura del concetto di Monumento, termine che ritorna molto spesso nei tuoi lavori…
G.M.: «Quella attorno al monumento è una riflessione legata anche al momento di crisi che stiamo vivendo. L’intento è quello di proporre all’attenzione dello spettatore una condizione particolare, quella di una fragilità che non credo sia venuta fuori adesso: è un qualcosa di profondamente connaturato nell’individuo che, in qualche modo, nell’ultimo trentennio, si è sempre tentato di mettere un po’ da parte, di nascondere. La crisi, invece, sta facendo riemergere questa condizione dell’individuo, questa sua umanità e questa instabilità che, a mio parere, è assolutamente sana perché fa parte della vita e che, per questo, non è da condannare né, tanto meno, da nascondere. Da qui il mio intento di indagarla per farla riaffiorare. Riguardo al mio utilizzo del termine monumento questo nasce dal fatto che come cittadino mi ha sempre un po’ colpito il modo in cui vengono vissuti i monumenti nelle città. In teoria, dovrebbero destare l’attenzione delle persone. In realtà, però, per la loro fisicità all’interno del tessuto urbano, vengono quasi subito dimenticati, nel senso che vengono assimilati al resto del contesto urbano e, per chi visita le nostre città, non hanno un maggior peso di un palazzo o di un qualsiasi altro elemento architettonico. Partendo da questa considerazione e dal fatto che il monumento è pensato per le grandi masse, la cosa su cui mi interessava lavorare, soprattutto nel caso della Bell’ra, era un monumento pubblico progettato per una visione privata. Per cui un qualcosa che va scoperto, a cui va prestata un po’ di attenzione. Non è un qualcosa che compare immediatamente ma, come in quasi tutti i miei lavori, c’è una percezione che arriva per gradi ed era questa la cosa che volevo ottenere: destare l’attenzione, anche di poche persone, ma riuscire ad entrare in contatto con loro in quel momento».
N.M.: Ecco, nella Bell’ra tu rappresenti questa falena che va verso un luce. Gli animali ricorrono molto spesso nei tuoi lavori, tanto da aver costituito nel tempo una sorta di bestiario…
G.M.: «La mia attenzione è stata sempre rivolta all’organismo umano e, soprattutto, alla condizione dell’individuo. L’organismo animale, che in vari momenti e in modi differenti nei miei lavori si collega a quello umano, è uno di quegli elementi, di quelle cose che, in qualche modo, hanno un’origine che non so definire. Probabilmente deriva dalle mie origini, nel senso che sono di Perugia e sono nato e cresciuto in campagna per cui ho sempre avuto una certa vicinanza con il mondo animale che, in passato, non ho mai consciamente apprezzato e che poi è venuta fuori prepotentemente nei miei lavori».
N.M.: A cosa stai lavorando in questo periodo?
G.M.: «Ad un progetto che si colloca nella serie dei monumenti e che sto pensando come [glossary_exclude]installazione[/glossary_exclude] pubblica, però è ancora tutto in fieri. Sarà sempre un monumento all’attenzione, come La Bell’ra, ma strutturato in maniera differente. Ma è presto per parlarne. Parallelamente sto portando avanti tutto l’iter per la realizzazione della Bell’ra per la quale sono in contatto con i legali e i familiari della vittima. Ci tengo a sottolinearlo perché non è mia intenzione farmi pubblicità sfruttando un fatto di cronaca ma voglio che il mio lavoro sia al servizio del pensiero di chi lo osserva e sta pensando a chi ha perso un suo caro. E’ quindi fondamentale per me avere l’appoggio della famiglia. Il monumento, d’altronde, non vuole essere legato unicamente a quel fatto ma vuole partire da quel punto per poi allargarsi a molti altri temi».
N.M.: Hai un lavoro, un progetto nel cassetto che per un qualche motivo non hai ancora realizzato ma a cui tieni particolarmente?
G.M.: «Ma, guarda, in verità proprio La Bell’ra è uno di quelli. La prima idea è del 2008 e mi era venuta sempre in relazione ad un fatto di cronaca che aveva una donna come protagonista. Si sono poi susseguiti confronti e dialoghi con amici, professionisti e colleghi ma il progetto è sempre rimasto lì, da una parte. Poi è accaduto, nel 2010 a Milano, quest’altro fatto attorno al quale il progetto ha preso corpo. Quando mi è stato proposto di prendere parte al Premio SetUp, il regolamento richiedeva di presentare un progetto e non un lavoro per cui mi sono detto: ok, questo può essere il momento adatto per presentarlo. E ora siamo qui…»
© [glossary_exclude]Riproduzione[/glossary_exclude] riservata