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Templi del pallone… e della memoria

del

Il 2 maggio del 1937, battendo la Triestina per 2 a 0, il Bologna si aggiudicò il suo quarto scudetto con ben due giornate di anticipo sulla fine del campionato. In panchina sedeva il magiaro Árpád Weisz che, bissando il successo dell’anno precedente, portava il club felsineo tra i grandi d’Europa.

Una bella massima dice che, se è vero che il football è nato sul Tamigi, è però diventato lo sport più bello del mondo sul Danubio. Quell’anno, infatti, delle sedici panchine della Serie A, ben nove erano occupate da allenatori provenienti dal mondo di ieri, come il viennese Stefan Zweig chiamava l’ormai dissolto Impero asburgico.

La gloria di Árpád Weisz, ebreo ungherese, fu però breve. Con la promulgazione delle leggi razziali, pochi mesi dopo il trionfo felsineo, dovette fuggire con la famiglia in Francia, e da lì nei Paesi Bassi. Poi, calò la notte sull’Europa e di Árpád Weisz, di sua moglie e dei suoi figli, si persero le tracce.

Il Bologna, nel frattempo, vinse altri scudetti. L’ultimo bagliore fu molto dopo la fine della guerra, nella stagione 1963-1964. Perché qualcuno, però, si ricordasse di Árpád Weisz dovettero passare altri quarant’anni.

Fu il giornalista Matteo Marani del Guerin Sportivo, nel 2007, a indagare sulla vicenda: fatta prigioniera in Olanda, la famiglia Weisz fu condotta ad Auschwitz. Árpád, che portava il nome glorioso del patriarca della nazione magiara, morì detenuto il 31 gennaio del 1944.

Una lapide allo stadio di Bologna ricorda il nome di Árpád Weisz. Si trova sotto le imponenti arcate della Torre di Maratona, progettata dal piacentino Giulio Ulisse Arata. Le pietre hanno memoria.

Sarebbe diventato il gioiellino dell’architettura sportiva in Italia lo stadio Littoriale di Bologna, il più bello e moderno tra gli impianti calcistici in Europa, in aperta competizione con Wembley. A volerlo, nel 1925, era soprattutto il gerarca Leandro Arpinati, di stanza a Bologna ma romagnolo come Mussolini e che verso il duce aveva una soggezione quasi nulla.

Insieme all’ingegner Costanzini, Arata pensò a due file sovrapposte di arcate in mattoni di un caldo rosso-bruno: forme e colori che sono un tributo e un accordo con l’architettura cittadina. Sulla tribuna orientale della grande arena, svetta la torre, cruda e ben piantata come la Azzoguidi, la Prendiparte e le altre torri medievali del centro storico.

Costruito ai piedi del colle della Guardia, in mezzo alla campagna appena fuori Porta Saragozza, negli anni a seguire fu la città a espandersi placidamente attorno a questo landmark cittadino, dopo la guerra rinominato dapprima Comunale e poi Stadio Renato Dall’Ara.

A chiunque passi oggi per via Saragozza, lo stadio di Bologna appare, però, come una bigia struttura metallica. Quello che si vede, infatti, è l’ampliamento delle gradinate effettuato in occasione del mondiale ospitato dall’Italia nel 1990, e che copre quasi del tutto alla vista forme e colori originali.

Per anni a Bologna si è discusso sul futuro dello stadio. In passato, c’era chi proponeva di costruire una nuova arena altrove, chi, addirittura, di demolire il vecchio stadio.

La via attualmente percorsa da comune e club parrebbe essere quella del restauro e del riadattamento alle esigenze del calcio di oggi: tolte le sovrastrutture metalliche dovrebbe essere recuperato – almeno esternamente – l’aspetto originario dello stadio.

Questa storia è cominciata sulle rive del Danubio e sul Danubio ritorna. Nel 1903, il professor Alois Riegl, era infatti stato incaricato dalla Imperial-regia commissione centrale per i monumenti artistici e storici di delineare il piano di riorganizzazione della tutela pubblica dei monumenti di Vienna.

Ne uscirono diverse considerazioni riunite in un titolo diventato, negli anni, di importanza capitale: Der moderne Denkmalkultus, ovvero Il culto moderno dei monumenti, un testo piuttosto complesso dove Riegl spiega la natura del monumento modernamente inteso e i valori che esso rappresenta.

Valori che lo Stadio Dall’Ara, luogo della memoria, possiede in quanto architettura compiuta, opera d’arte e non semplice impianto sportivo, per quanto funzionale. Adeguatamente presi in considerazione nelle fasi di restauro e di ammodernamento, questi valori potrebbero dare nuova vita alle pietre cariche di storia.

Sarebbe un trionfo per Bologna e per la memoria e uno scacco a chi, altrove, progetta invece di demolire stadi in nome di una presunta modernità che, a volte, genera mostri.  

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.
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