Ha appena inaugurato a Roma, presso il Complesso di Capo di Bove sull’Appia Antica, la Mostra Un Atlante di arte nuova. Emilio Villa e l’Appia Antica. L’esposizione, ripercorrendo la storia della rivista “Appia” aiuta a fare chiarezza sull’esperienza della Galleria “Appia Antica” e riporta la doverosa attenzione sulla figura di Emilio Villa. Una mostra, la cui qualità e importanza storico-bibliografica ci spinge a sperare che possa essere riproposta anche in altre sedi e città. Nell’attesa abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il curatore Nunzio Giustozzi.
Roberto Brunelli: Perché questa mostra e cosa si aspetta da essa?
Nunzio Giustozzi: «Il progetto di questa mostra nasce dal mio innamoramento per l’Appia che risale al 2010, quando, direttrice l’archeologa Rita Paris, curai per i tipi di Electa una guida della regina viarum: “un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti…”.
Così scriveva Antonio Cederna ‒ un vero e proprio milite della tutela di cui nel Complesso di Capo di Bove, sede dell’esposizione, si conservano Archivio e Biblioteca ‒ nel dicembre del 1958, proprio negli anni della galleria e della rivista, aggiungendo che l’Appia andava salvata: “perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte…”.
Proprio il mito e la seduzione dell’immagine dell’Appia Antica, la sua fortuna visiva nei secoli sono stati il focus di un’altra bella mostra intitolata Appia. Self-Portrait che si è tenuta nell’estate del 2018 presso il Casale di Santa Maria Nova, per la quale selezionai gli sguardi migliori dei fotografi del Novecento e contemporanei.
Molte fotografie, anche di moda, risalivano proprio agli anni cinquanta quando anche Hollywood era sbarcata sul Tevere e sull’Appia. In quell’occasione scoprii che nel 1957 Liana Sisti con l’appoggio del compagno, l’eclettico artista Enrico Cervelli, aveva aperto una galleria d’arte in un casale sulla via Appia Antica al numero 20.
La scelta di fondare un luogo espositivo, con annesso cenacolo di pittori, risultava forse topograficamente eccentrica, quasi un anti-via Margutta, ma era dettata oltre che dalla volontà di aria e di rinnovamento, dall’intuizione di rispondere alle esigenze della nuova abbiente borghesia romana che preferiva abitare quel paesaggio ameno piuttosto che un centro storico ancora segnato dalla guerra.
L’idea, nata in seno alla casa editrice Electa, con la quale collaboro ormai da vent’anni, e sposata con slancio dall’attuale direttore del Parco Archeologico dell’Appia Antica, l’architetto e paesaggista Simone Quilici, era dunque di ricostruire, di “materializzare” per quanto possibile, l’attività espositiva della galleria “Appia Antica” nel triennio 1957-1959 e proporre per exempla le creazioni, ormai invisibili ai più, di alcuni degli artisti italiani presenti nelle pagine della rivista diretta da Emilio Villa, al fine di narrare e far rivivere, con un rigoroso impianto filologico, una storia meno nota ma straordinaria dell’arte del Novecento che vede fugacemente protagonista negli ultimi anni cinquanta proprio l’Appia Antica.
Si tratta di una vera opera di valorizzazione in situ del patrimonio culturale, perché proviene dalla conoscenza, esito di lunghe ricerche storico-artistiche e documentarie nelle quali sono stato affiancato, come il volume che accompagna e approfondisce la mostra rivela, da studiosi (Giorgia Gastaldon, Manuel Barrese e altri) che hanno in questi anni condotto ricerche parallele alla mia. L’auspicio è che i visitatori nella loro passeggiata lungo la via Appia si fermino ed entrino nella stanza delle meraviglie “senza titolo”, godendo di una sosta istruttiva, inaspettata e sorprendente».
R.B.: Ci racconta un po’ il lavoro di preparazione della mostra?
N.G.: «Lungo e complicato è stato il percorso di identificazione dei lavori, talvolta pubblicati nei due numeri della rivista con titoli essenziali, evocativi e datazioni inspiegabilmente sbagliate, complesso il processo di riconoscimento a partire dalle immagini spesso riprodotte al contrario, in dettagli spinti o riprese secondo particolari esposizioni per entrare con la luce dentro la materia o solamente allo scopo di guadagnare armonia estetica nell’impaginato.
Un’attenta ricognizione bibliografica e l’impegnativa consultazione di una congerie di materiali resa generosamente disponibile da parte degli eredi, di archivi e fondazioni, di avveduti collezionisti ha fatto sì che potesse in molti casi, come è accaduto ad esempio per Bruno Caraceni, verificarsi l’apparizione di quasi tutte le opere di allora, per cui è stato paradossalmente doloroso operare una necessaria selezione, mentre alcuni artisti, come Nino Franchina, Giuseppe Uncini e Mario Schifano, sono rappresentati da un’unica, mirifica creazione esemplare.
Altre volte la fragile bellezza di capolavori come i Ferri di Alberto Burri, che tanto spazio della rivista occupano, o gli Achromes di Piero Manzoni ha impedito ai proprietari di concederli in prestito. Allorché ogni trovamento sia risultato vano, la scelta è caduta su opere di quel ristretto torno di anni, assimilabili a quelle edite o citate a stampa».
R.B.: E l’allestimento?
N.G.: «L’elegante allestimento, misurato nelle linee, nelle cromie e nelle depurate essenze da Massimo Curzi, dètta le sottili distanze di un dialogo serrato tra opere alle pareti e documenti nelle teche, una lettera autografa di Villa a Bonalumi, le copertine a colori dei due numeri della rivista, che nessuno ha mai tenuto in mano se non negli “anni originali”, le doppie aperte nel punto in cui il confronto è palese, cataloghi introvabili che miracolosamente riemergono da un immeritato oblio, innescando, come avviene nel volume che accompagna la mostra con maggior agio per paragoni dal vero impossibili e infiniti rimandi interni, associazioni multiple e risonanze anche quando le storie non sono fin in fondo narrate».
R.B.: Dai suoi studi è Villa ad essere stato isolato dal sistema o era lui ad essere troppo lungimirante per l’Italia dell’epoca oppure entrambe le cose?
N.G.: «Vorrei innanzitutto precisare che la mia perlustrazione dell’opera di Emilio Villa si limita all’esperienza di Appia Antica: altri sono i fini conoscitori di questa figura carismatica, geniale e anomala del panorama culturale italiano del Novecento e nessuno si offenderà se cito per tutti Aldo Tagliaferri.
Non credo proprio che sul finire dei roaring Fifties ‒ secondo Andrea Cortellessa, uno dei più acuti esegeti dell’opera villiana, il decennio maggiore della sua parabola di scrittore e intellettuale ‒ possa dirsi “isolato”, visto che numerosi sono gli eventi espositivi a sua cura in gallerie diverse da Appia Antica, le presentazioni degli artisti alle Biennali di allora, e la stessa vocazione internazionale che la rivista “Appia” assume programmaticamente dalla seconda, e purtroppo ultima uscita, rivela un peculiare approccio, grazie anche al tramite diretto di Gabriella Drudi, alle creazioni di artisti stranieri, da Motherwell a Rothko, all’espressionismo astratto americano, in una chiave meno ideologica, eroica e biografica e invece più concentrata sui linguaggi formali.
Villa fu circondato e amato da artisti italiani ormai affermati, basti citare tre “mozioni dell’Italia centrale”, Alberto Burri, Edgardo Mannucci e Nuvolo ‒ che pochi anni prima aveva avuto il merito di far guardare sotto una luce più autentica e gli rimasero sodali per tutta la vita ‒ come dalla più giovane generazione di autori (da Schifano a Manzoni e Lo Savio per nominarne solo alcuni “già andati via, genialissimi e spontanei”) che, di fronte all’impasse dell’Informale e all’annoso dibattito astrazione-figurazione, agivano un recupero tutto italiano delle avanguardie storiche con particolare riferimento al fenomeno Dada».
R.B.: Stranamente in questa generazione 2.0 sembrano non esistere più le avanguardie, questo nonostante il web e le sue enormi potenzialità. È realmente così oppure oggi come allora esse continuano a non trovare e/o a incrociare “lo spazio pubblico”?
N.G.: «Non credo che non esistano più le avanguardie, anzi mi pare dominino ancora stancamente gli spazi pubblici e privati, le occasioni espositive che contano nel sistema dell’arte contemporanea, cui sono estraneo anche se non lavoro esclusivamente su artisti storicizzati ma ho scritto pagine critiche su autori presenti sul mercato. La situazione non mi pare molto diversa da allora.
All’epoca, affermava Villa nell’editoriale del luglio 1959 al primo numero della rivista, dal titolo artatamente ossimorico, “Appia Antica. Atlante di arte nuova”, l’avanguardia rimaneva “affogata in una baraonda noiosa di superficialità, di esibizionismi, di contraffazioni, di plagi, di rissa mercantile.”
Il periodico da lui diretto intendeva dunque per statuto liberarsi dal manieristico e pavido retaggio perpetuato dalla critica ufficiale e trionfante, a lui sistematicamente ostile, depurando l’arte contemporanea dallo smarrimento sovente generato dalla pericolosa connivenza di artisti, critici e mercanti. E “sostituirsi agli artisti per difendere quelli veri dalla aggressione della critica, apologetica e denigratoria, filologistica archivistica o storicistica; sempre sprovveduta, comunque, squallida, impotente, impropria”».
R.B.: Sulla rivista online “Studi di Memofonte” in un articolo dal titolo Emilio Villa e l’esperienza di “Appia Antica” Giorgia Gastaldon ha scritto: “La principale motivazione che spinse Emilio Villa e compagni a fondare ‘Appia Antica’ doveva risiedere nel desiderio di dire la propria sullo stato dell’arte contemporanea”. Con questa mostra si può circostanziare come molti di quegli artisti siano ancor oggi meritevoli di una rilettura se non di una vera e propria riscoperta?
N.G.: «Se alcuni dei nomi che presero parte alle iniziative messe in piedi da Emilio Villa andrebbero senza dubbio riscoperti, quasi tutti gli artisti ‒ in mostra ne sono presenti 21 ‒ hanno riscosso in avvenire una notevole fortuna critica e proprio i lavori presentati allora in galleria o pubblicati sulla rivista aprono oggi i cataloghi generali senza però troppi ragionamenti in merito.
Questa mostra sa offrire dunque all’apprezzamento del pubblico una selezione di opere mai viste capaci di rivelare la loro originale indagine a quella altezza cronologica e di rileggere la produzione iniziale (o di transizione) di artisti come Bonalumi, Castellani, Vermi, dei giovanissimi Mambor e Tacchi che, se risulta apparentemente lontana dalla cifra formale che li connoterà e renderà famosi nei pieni anni sessanta, di quegli sviluppi serba il germe fecondo».
R.B.: Che eredità ci lascia la lezione di Emilio Villa?
N.G.: «Agli artisti, giovani e meno, Emilio Villa ‒ “sciamano, guru più che critico… capo zingaro dell’avanguardia romana” come lo descriveva Fabio Mauri ancora nel 1989 ‒ enunciò un vitalistico mònito: “tutto è stato fatto, e niente è stato fatto; per cui tutto è da fare e non c’è niente che non si possa fare.” A noi storici dell’arte continua a proclamare l’appello a non crogiolarci nelle anse confortevoli, nelle categorie, nelle convenzioni del mestiere ma a osare, a saper vedere, ad accorgersi prima e indovinare, a credere, abbandonandosi alla passione, usando sempre un giudizio puro, scevro da ogni condizionamento. In una lettera, datata 13 giugno 1959, in cui invita Agostino Bonalumi (e Piero Manzoni) a collaborare alla rivista, scrive: “Non dire mai ‘attività critica’. Ma entusiasmo, occhio, poesia.” A leggere i suoi testi, religiosamente ordinati nelle due edizioni di Attributi dell’arte odierna e anche altrove, pagine imaginifiche in cui la parola tocca esiti vertiginosi, si impara ancora l’arte di scrivere l’arte».