È in corso a Bologna a Palazzo Albergati la Mostra “Animali fantastici. Il giardino delle meraviglie”, una collettiva, a cura di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, prodotta da Arthemisia, composta da oltre 100 opere di 23 artisti italiani. La mostra si concluderà, salvo proroghe, il 5 maggio 2024.
R.B. Partiamo dalla mostra bolognese. Puoi descrivere a beneficio dei nostri lettori come è nata l’idea e quali sono i vari step con cui si arriva all’inaugurazione.
G.M. L’idea come bozzolo mi segue da oltre vent’anni. Per capirci, nel mio metodo ho creato alcune piattaforme tematiche che aggiorno in modo costante: una di queste riguarda il mondo animale e, non a caso, il risultato della mostra è il frutto di una continua frequentazione con gli artisti e le opere che sento aderenti al mio processo selettivo.
Le oltre cento opere di ventitré artisti sviluppano una qualità olistica nel gioco tra insieme e parti singole. Da un lato non scemano le differenze di tecniche, codici e concetti di ognuno; dall’altro si amalgamano nell’insieme orchestrale e il risultato è frutto di conoscenza, equilibrio, intuizioni, dimestichezza, rispetto. E poi deve esserci la giusta dose d’amore tra curatore e opera, tra la selezione analitica e la passione emotiva che ti accompagna lungo i progetti.
Sentimento, conoscenza e intuizione governano la mia natura curatoriale e mi permettono di pensare sempre dalla parte del pubblico, in particolare dalla parte dei giovani e giovanissimi. Tengo in considerazione gli “addetti ai lavori” ma la valutazione deve essere più ampia, seguendo un pochino quella logica del Festival di Cannes o del Fuorisalone, ovvero, massima qualità possibile nella miglior soluzione di forma e funzione che renda chiarezza senza abbassare le soglie estetiche.
Costruire una mostra è un atto d’amore per il racconto in forma di opere. L’azione da regista del curatore somiglia, quantomeno nel mio approccio, alla costruzione di un film tra soggetto, riprese e montaggio finale. ANIMALI FANTASTICI nasce da una dislocazione con precise linee narrative (la sceneggiatura del film), scelte di scenografia (fantastici gli architetti e tutto il team di Arthemisia) che diventano paesaggio e linguaggio (l’apparato scenografico e la fotografia del film), uso delle opere come soggetti vivi in campo (gli attori del film), relazioni mai casuali tra un’opera e l’altra (il campo/controcampo del film), fino alla sequenza dialettica tra le singole stanze (il montaggio finale del film).
Adotto questo ragionamento fin dalle mie prime mostre negli anni Novanta. Potranno piacere o meno le cose che firmo ma sono tra i pochissimi a costruire la mostra come un romanzo e la allestisco come un film, equilibrando così le soluzioni tecnologiche più innovative con un rispetto filologico per l’opera e il suo valore d’integrità iconografica.
R. B. : Personalmente definisco questa mostra come uno di quegli eventi che ti ripagano ampiamente il prezzo del biglietto. Non credi però che per una famiglia di quattro persone, seppur sia qui presente una “biglietto famiglia”, l’arte, intesa come visite a mostre, fiere e musei stia diventando poco fruibile per un numero sempre maggiore di famiglie.
G. M. Sollevi una questione di peso morale che merita riflessioni dinamiche. Io sono per evitare la gratuità quando gli eventi culturali nascono da produzioni private che investono soldi e risorse. Penso anche che serva una modulazione maggiore del ticketing rispetto alle tante tipologie sociali, soprattutto a favore di coloro che hanno frequentazioni non sporadiche. In realtà, se pensiamo agli eventi musicali live, il museo è ancora un luogo poco costoso che offre intrattenimento culturale. Il problema, semmai, non riguarda il costo del biglietto ma la qualità di ciò che si sta offrendo.
R. B. Continuando a parlare di Animali fantastici, è stata una scelta casuale quella di convocare esclusivamente artisti italiani oppure è stata una scelta ponderata? Se sì puoi spiegarne le motivazioni.
G.M. Scelta assolutamente ponderata. Ci tenevo che la tappa iniziale di questa mostra avesse un focus ragionato sull’arte italiana contemporanea, per dare un segnale di valore e sostegno rispetto ad una significativa qualità media nel nostro Paese. Che poi tanti artisti non abbiano raggiunto le quotazioni che meriterebbero è un altro paio di maniche, ma qui andremmo fuori dal tema animalesco per entrare nel tema “fiabesco” del mercato azionario, delle grandi compagnie, dei fondi e di altri meccanismi finanziari che decretano il valore astratto del bene mobile.
R.B. Permettimi di ricordare l’esposizione La Ragione delle Regioni che hai curato a Viterbo nel 2005 e nella quale ti eri prefissato l’obbiettivo di raccontare il Paese attraverso la creatività degli artisti. A mio avviso è stato un evento estremamente interessante e concedimelo, molto significativo. Hai raggiunto lo scopo che ti eri prefisso con quell’evento, lo riproporresti oggigiorno, se sì manterresti il formato originale o cambieresti qualche cosa.
G.M. Ti sono grato per aver ricordato REGIONEVOLMENTE, un progetto di serio valore nella mia biografia, forse una delle mostre/osservatorio più sottovalutate per il modo di affrontare il nostro territorio in forma di ATLAS. In pratica avevo scelto 40 artisti, due per ogni regione: un grande nome storicizzato e un nome più giovane che incarnasse ottimi esiti di critica e mercato. Il problema era la debolezza della Fiera a Viterbo, uno dei tanti luoghi di buon potenziale italiano che non è riuscito a spiccare il volo. Per fortuna esistono i cataloghi che creano la Storia e registrano i fatti in maniera incontrovertibile. La stessa mostra potrei ripeterla oggi con gli stessi artisti e il risultato mi darebbe ragione, non ho dubbi. Le cose ben fatte non scadono.
R. B. : Sei stato curatore del Premio Terna e del Premio Celeste per un totale di dodici edizioni che hanno visto negli anni tra i vincitori degli ottimi artisti del panorama artistico nazionale. Perché in Italia aggiudicarsi un importante premio artistico non è incisivo, come ci si aspetterebbe per la carriera artistica dell’artista?
G.M. In realtà queste due lunghe esperienze mi hanno mostrato esiti diversi ma complementari: col Premio Celeste ho visionato buona parte dei migliori giovani artisti italiani attorno alle molteplici figurazioni pittoriche; con il Premio Terna ho invece attraversato quasi tutto il panorama dell’arte italiana museale, collaborando con grandi artisti viventi, da Luigi Ontani a Michelangelo Pistoletto, da Alberto Garutti ad Ettore Spalletti, passando per una miriade di autori fantastici e tanti giovani che poi sono emersi ai massimi livelli. Pensiamo a Gian Maria Tosatti: lo scoprimmo noi del Premio Terna e lo premiammo col suo progetto Hôtel de la Lune quando ancora nessuno lo conosceva.
Credo di essere il critico che ha curato più premi in Italia, motivo per cui posso affermare che l’utilità e l’incisività dipendono dal singolo premio, non esiste una regola d’ordine generale. Il MAXXI, ad esempio, è riuscito con Bulgari a creare una bella sinergia che amplifica il valore dei finalisti e vincitori. Penso al TALENT PRIZE con cui collaboro da molte edizioni come giurato; anche qui si respira una bella aria che riguarda i giovani artisti italiani con un approccio concettualmente strutturato. Altri premi, invece, li trovo inutili e dannosi, soprattutto perché creano false speranze e incoerenti aspettative.
R.B. Veniamo ora agli anni Novanta e ai diversi artisti di quella generazione nata tra il 1960 e il 1970 che hai seguito in molti casi fin dai loro esordi. Cosa vuoi e/o puoi condividere con noi di quel decennio, che gli ha visti protagonisti e durante il quale molti (all’epoca) giovani italiani si sono avvicinati all’arte e, in molti casi al collezionismo.
G.M. Ho attraversato un passaggio linguistico come quello che ha integrato la tecnologia digitale ai linguaggi già esistenti nelle arti visive. Su quel ponte storico sono stato il primo curatore a scrivere un libro che raccontasse le molteplici relazioni tra il quadro e le nuove tecnologie. Per capirci, era il 1998 quando uscii per Castelvecchi con NQC Nuovo Quadro Contemporaneo. Erano anni in cui frequentavo galleristi di talento come Paolo Vitolo, Gino Gianuizzi, Domenico Nardone; erano giorni di spazi sperimentali, luoghi alternativi, situazioni da underground in emersione; erano periodi in cui le riviste ancora pesavano, in cui le tante gallerie creavano valore nella loro costellazione eterogenea, in cui il collezionismo era più spontaneo e generoso, in cui la finanza non dettava le regole del gioco culturale…
R.B. Quanto ha pesato sulle carriere dei nostri artisti di quegli anni il fatto di non aver compreso appieno le potenzialità del web oltre ad una scarsa padronanza dell’inglese? Ricordo che erano pochissimi quelli che avevano un sito web e ancor meno quelli che puntualmente lo aggiornavano. Un ritardo che li accomunava, d’altronde, ai nostri Galleristi, approdati con notevole ritardo su Internet e con pagine raramente anche in inglese.
G.M. Ogni artista è responsabile del proprio destino professionale. Colpevoli coloro che sono rimasti in attesa passiva, coloro che hanno sopravvalutato il proprio modello, coloro che non si sono messi in gioco rischiando e investendo senza paura. Come puoi pensare che il mondo venga da te se non dai al mondo chiavi d’accesso, codici d’entrata e motivi favorevoli per destare attenzione?
R.B. Credi che se gli artisti italiani delle ultime generazioni avessero saputo far gruppo avrebbero avuto maggiore visibilità a livello internazionale?
G.M. Certamente il gioco di squadra aiuta anche le discipline individuali, e l’arte visiva è un coacervo di narcisismo concentrico che spesso isola l’artista in un solipsismo depressivo. Però non credo che basti mettere assieme le forze se le singole parti non aggiungono ma sottraggono valore. Ci vuole come sempre un magico equilibrio tra potenziale e reale, cosa facile a dirsi ma….
R.B. È possibile una riscoperta di Artisti meritevoli degli anni Novanta che ormai da decenni non sentiamo più ricordare, ma che all’epoca hanno creato Opere che per il loro valore storico-artistico sono ancor oggi attualissime?
G.M. Una delle cose che più amo è la riscoperta o rivalutazione di artisti che non hanno raccolto quanto dovevano. Potrei farti molti esempi ma mi fermo a due casi lampanti: Enrico Corte e Andrea Nurcis, entrambi sardi ma cresciuti a Roma, emersi negli anni Novanta in una scena capitolina che era fresca e sperimentale. La loro arte è potentissima, priva di qualsiasi compromesso, iconograficamente tra le cose più complesse e veggenti che io abbia mai visto. Entrambi affrontano tematiche che pochissimi hanno il coraggio di attraversare, sono autori dalle parti di Mike Kelley, Paul McCarthy, Martin Kippenberger, Rainer Werner Fassbinder, Jean-Luc Godard…. Non esagero quando dico che sono tra le cose più radicali e significative nell’arte italiana degli ultimi Trent’anni. Per fortuna il tempo ripara molti errori e sistemerà anche questo glitch imperdonabile.
R.B. Nel 2015 lanciai una petizione per chiedere che il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia tornasse ai Giardini così da dare la meritata visibilità alla nostra Nazione e agli Artisti italiani, a oggi gravemente penalizzati dall’aver visto ormai da diversi anni il nostro Paese cedere il suo storico/naturale Padiglione ai Giardini in cambio di una posizione defilata e logisticamente poco felice all’Arsenale. La proposta ti trova d’accordo?
G.M. Credo da sempre che il Padiglione Centrale ai Giardini dovrebbe essere interamente destinato agli artisti italiani. Qualsiasi nazione seria che tuteli il proprio sistema farebbe così, noi come al solito adoriamo la colonizzazione purché non si dica che siamo provinciali. Ma come ha affermato l’amico Luca Beatrice, il nostro più grande valore risiede proprio nella Provincia e nella dimensione virtuosa del “provincialismo”. La Toscana del Chianti è il perfetto esempio di provincialismo virtuoso: tutela massima della campagna e dei suoi prodotti, difesa della lingua senza remore, esaltazione della toscanità e massima apertura internazionale in forma d’accoglienza. Svegliamoci amici del mondo culturale…
R.B. Per concludere, da autore io stesso insieme all’artista Stefano Tedioli di un libro “Chi colora Nanù?” per far avvicinare i bambini all’arte mi piace concludere parlando del tuo libro Gli artisti spiegati ai bambini (e ai loro genitori) Puoi descrivere nel dettaglio questo progetto editoriale e condividere con noi le emozioni che regala parlare di arte ad un pubblico così giovane e ricettivo.
G.M. Uscirà tra pochi mesi la mia raccolta selezionata di articoli che ho scritto per quasi dieci anni sul magazine STYLE del gruppo RCS. Lo pubblicherà Red Star Press, la piccola casa editrice di un amico, Dario Morgante, che da sempre opera con tenacia nell’editoria saggistica indipendente. Mettendo insieme i racconti delle mostre che vedevo, ho ricreato una planimetria di grandi nomi della storia dell’arte, da Giotto a Hirst, con l’idea che un linguaggio di primo accesso non sia una limite per chi scrive ma una chiave d’entrata per il lettore e per lo stesso scrittore.