Negli ultimi due o tre anni si sono moltiplicate, in giro per il mondo, le mostre dedicate ad Andy Warhol in gallerie e istituzioni pubbliche e private: in Italia il culmine è stato la grande retrospettiva (tuttora in corso) al Complesso del Vittoriano di Roma.
Eppure visitando questo Andy Warhol — From A to B and back again, al Whitney Museum fino al 31 marzo, si ha davvero l’impressione di essere di fronte alla mostra definitiva sull’artista di Pittsburgh. Non vi sono rappresentati solo i grandi cicli storici — dai Flowers ai Most wanted men, dalle Campbell Soup’s cans ai Disasters, da Ladies and Gentlemen agli Skull — con capolavori provenienti dall’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, dall’Estate of Andy Warhol, dalla Brant Foundation come pure da prestigiose collezioni pubbliche e private, ma vi è uno straordinario e documentatissimo sguardo d’insieme a 360 gradi sulla multiforme attività svolta dall’artista nel corso della sua vita.
Oltre ai quadri (che includono anche opere meno note al grande pubblico, dal Superman del 1961 ai Rorschach del 1984; dai dipinti realizzati in collaborazione con Jean-Michel Basquiat agli Oxidation paintings) vi sono naturalmente i film che Warhol realizzò tra il 1963 e il 1968, e non solo i “classici” — Kiss; Eat; Empire; Chelsea Girls…— ma anche gli screen test che W. realizzava con i visitatori della Factory, a mo’ di ritratti su pellicola, nonché gli show realizzati per la TV negli anni Ottanta: Andy Warhol’s TV e Andy Warhol’s Fifteen Minutes. Vi sono poi i Brillo Boxes e anche una Time capsule; c’è ampia documentazione sulle attività di W. come produttore musicale (Velvet Underground, Nico…) e come editore (la rivista “Interview” etc.), che seguirono il suo temporaneo abbandono della pittura nel 1965 a favore di sperimentazioni multimediali. E vi sono infine anche esempi di merchandise, come la carta da parati Cow Wallpaper.
Ma quel che è particolarmente prezioso in questa retrospettiva è la parte dedicata al Warhol disegnatore. Vi sono ancora detrattori che considerano Warhol un artista di second’ordine, o addirittura tout court non lo considerano neanche un artista. Si può facilmente controbattere che, volenti o nolenti, si deve constatare come Warhol abbia saputo cogliere e rappresentare la Weltanschauung di un’epoca, a volte anche con anticipazioni profetiche (sua la celeberrima frase «Nel futuro ognuno sarà famoso nel mondo per 15 minuti», inclusa originalmente nel catalogo di una mostra al Moderna Museet di Stoccolma nel marzo 1968).
Lo sguardo candido, impassibile, apparentemente superficiale di Warhol nei confronti del logo pubblicitario o dell’immagine-simbolo, in cui intravedeva — con una sospensione di qualsiasi giudizio etico — una pura e semplice esteticità; l’integrazione della serialità industriale nella pratica artistica; alla fin fine l’abbandonarsi al trionfo della civiltà dell’immagine: tutto questo, con formidabile intuizione, interpretava la direzione che il mondo occidentale, preda del capitalismo, stava prendendo. In un certo senso la avallava: l’arte doveva essere “consumata” come qualsiasi altro prodotto commerciale. Tuttavia la ripetizione della stessa immagine su vasta scala già rappresentava la perdita di valore della realtà a favore di quello che Jean Baudrillard avrebbe poi chiamato simulacro, e forse la parte monocroma dei grandi dittici — con le immagini-simbolo di cronaca serigrafate sul pannello accanto — stava lì a ricordarci come un blackout di senso fosse in agguato.
Warhol riuscì a cogliere l’iconicità epocale delle immagini scelte come soggetto dei suoi quadri, e a sua volta creò icone che tuttora fanno parte del nostro immaginario collettivo. La “sospensione del giudizio” warholiana restituisce paradossalmente una visione lucida delle cose senza alcun intellettualismo mettendo, come uno specchio, di fronte a domande inevase. Un esempio per tutti: il film sull’Empire del 1964 (otto ore di camera fissa sul grattacielo di notte) si fa riflessione sul tempo, sul tempo nel cinema e sul mezzo cinematografico stesso. È un’operazione semplice, elementare, ma c’è stato bisogno di chi l’abbia saputa pensare e abbia avuto il coraggio di realizzarla.
Tornando quindi alla mostra (e ai disegni), quello che la differenzia da quasi tutte le altre dedicate all’artista è proprio il focus sull’evoluzione della ricerca che portò alle opere che tutti conosciamo. Warhol è prima di tutto un disegnatore: laureatosi al Carnegie Institute of Technology di Pittsburgh, nei primi anni Cinquanta si trasferisce a New York e ottiene un rapido successo come illustratore commerciale, soprattutto nel settore della moda. Lavora anche come designer, in particolare per l’industria di calzature di Israel Miller: alcuni dei disegni, realizzati con inchiostro, foglia d’oro e collage, furono poi esposti in alcune delle sue prime mostre newyorkesi, accostando già da allora la pratica “bassa”, commerciale, alla pittura “d’arte”.
Ed è proprio nei disegni (anche a mano libera) che riproducono particolari di loghi pubblicitari o di titoli cubitali di quotidiani e riviste, realizzati all’inizio del decennio successivo, che vi è testimonianza della ricerca di un’iconografia “pop” prima della scoperta del mezzo serigrafico che diverrà poi il marchio di fabbrica — è il caso di dire — della produzione warholiana. Parallelamente, vi è ricerca e sperimentazione sul medium tecnico: diverse le opere su tela dipinte a caseina, a volte con l’intervento di pastelli a cera o di grafite, prima di arrivare agli acrilici, agli smalti, alle vernici industriali combinati con la serigrafia (e ancora negli anni a venire vi sarà impiego di materiali inusuali come la vernice fluorescente, fino alla polvere di diamante negli anni Ottanta — per non parlare degli Oxidation paintings).
Straordinaria, frenetica la creatività di Warhol in un quadriennio: gran parte delle sue serie più famose nascono tra il 1962 e il 1965; dopo il ’65, come si è detto, si dedica soprattutto al cinema e a sperimentazioni multimediali, finché il 3 giugno 1968 subisce un attentato da parte di una frequentatrice della Factory, la femminista radicale (e mentalmente instabile) Valerie Solanas. Warhol sopravvive per miracolo, anche se le conseguenze fisiche dell’attentato lo accompagneranno fino alla fine della sua vita. Riprende quasi subito l’attività febbrile, e nel 1973 dà inizio a un’altra serie celeberrima, quella dei Mao, di cui in mostra sono presenti una versione disegnata a matita, un dipinto di dimensioni monumentali e la carta da parati con la celebre immagine stampata.
Il 1973 è anche l’anno delle Time Capsules: a partire da un trasloco, Warhol iniziò a salvare oggetti della sua vita quotidiana — giocattoli, souvenir, giornali, corrispondenza, scontrini… — sigillandoli in scatoloni ordinati con mese e anno. All’epoca della sua morte, nel febbraio 1987, gli scatoloni erano diventati oltre seicento. Collegando questa strana collezione all’abitudine, presa nello stesso periodo, di avere sempre con sé un registratore portatile su cui incidere le conversazioni in cui si trovava coinvolto, diviene abbastanza evidente come la paura e l’ossessione della morte siano ulteriori (inaspettate?) chiavi di lettura dell’opera di Warhol. È l’altro lato della cultura dell’effimero: il tentativo di rimozione della caducità. Quattro anni dopo la morte di Warhol, Damien Hirst produrrà un’opera dall’emblematico titolo I Want To Spend The Rest Of My Life Everywhere, With Everyone, One To One, Always, Forever, Now (“Voglio passare il resto della mia vita dovunque, con tutti, uno per uno, sempre, per sempre, ora”).