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Whitney Biennial 2024: “Even Better Than the Real Thing” – nella precarietà del nostro tempo.

del

“Even Better Than the Real Thing” , “Anche meglio della realtà, questo il titolo altisonante quanto ambiguo rispetto al contenuto, per una Whitney Biennial 2024 in cui si avverte piuttosto una costante sensazione di precarietà, di imminente decadimento e incombente dissoluzione.

La mostra inizia di fatto al piano terra con un accumulo di resti e una bandiera americana accartocciata e abbandonata su un divano decadente. Quest’opera di Ser Serpas denuncia in modo inequivocabile “l’esaurimento del sogno americano.”

Questo messaggio viene poi amplificato dall’opera di Kyan William, Ruins of Empire II or The Earth Swallows the Master’s House (2024): una replica della facciata nord della White House realizzata in terriccio e in fase di crollo e dissoluzione, posizionata sulla terrazza del Whitney Museum.

Entrambe le opere si propongono come potenti metafore visive dello stato odierno della cultura e politica americana e della relativa opinione pubblica. Esse riflettono la crisi e la sfiducia nei miti di potenza americani, un sentimento che si estende però ad un sentore globale, a vari livelli dell’esperienza collettiva e individuale di questo fragile momento storico.

Molte delle opere in questa Biennale sono infatti presentate come costruzioni incompiute, accumuli di rovine scartate della nostra società e di una civiltà le cui istituzioni, ideologie e narrazioni storiche sono state messe in discussione e sfidate per così tanto tempo che alla fine stanno crollando, senza però trovare ad oggi alternative collettivamente accettate e accolte.

Oscillando tra urgenza politica e utilità, questa Biennale è ambiguamente e quasi scleroticamente animata da un senso di smarrimento e di esaurimento culturale, che tenta comunque un’interrogazione critica di quelle che possono essere ancora le alternative possibili all’attuale “reale”.

Significativa in questo senso l’opera di Charisse Pearlina Weston: l’artista ha incastrato grandi lastre di vetro fumé contro le pareti del Museo per suggerire un momento di pausa prima del crollo, della sospensione e dell’aumento del rischio. Una metafora visiva alquanto potente, del momento geopolitico e ambientale che stiamo vivendo.  

La permeabilità, o permanenza dei monumenti come simbolo culturale e storico è alla fine quello che elabora anche l’ultima installazione di Isaac Julien Once Again Status Never Dies che interroga simboli e istituzioni, la narrativa culturale dominante e la sua relazione con l’arte africana, adottando una prospettiva dialettica, poetica e sincronica che rivela bias perpetrati per anni nella classificazione di cosa sia artefatto, monumento e arte “alta” e cosa è stato a lungo considerato solo reperto etnografico esotico, non con pari dignità museale. 

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better Than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20–August 11, 2024). Isaac Julien, Once Again… (Statues Never Die), 2022. Photograph by Ashley Reese

Di contrasto, alcuni artisti esplorano e recuperano la saggezza indigena e antiche tecnologie come alternativa per la sopravvivenza collettiva.

Un esempio è il video di Dionne Lee “Challenger Deep”, dove la macchina da presa si concentra sulle mani dell’artista che si riconnette con la terra e gli elementi naturali usando uno strumento rudimentale per trovare l’acqua, una risorsa fondamentale alla vita, ma sempre più rara.

L’artista Cannupa Hanska Luger celebra invece la tecnologia dei nativi con un’installazione che presenta una struttura di tenda “Tipi”non invertita… il nostro mondo attuale è sottosopra“. L’opera vuole capovolgere i nostri fondamenti nel tempo e nello spazio, aprendo a futuri immaginari liberi dal colonialismo e dal capitalismo, in cui la conoscenza indigena più ampia possa prosperare. Il titolo stesso è eloquente: “Unziwoslal Wasicuta”, una frase Lakota che significa “il mondo del mangiatore di grasso è sottosopra”, celebra qui le tecnologie native che propongono un vivere più sostenibile.

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better Than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20- August 11, 2024). From left to right: Maja Ruznic, Deep Calls to Deep, 2023; Cannupa Hanska Luger, Uŋziwoslal Wašičuta (from the series Future Ancestral Technologies), 2021; Maja Ruznic, The Past Awaiting the Future/Arrival of Drummers, 2023. Photograph by Ron Amstutz

Più in là, l’artista Mapuche Seba Calfuqueo nel video TRAY TRAY KO (2022) tira un lungo telo blu, che imita una cascata, attraverso una foresta protetta in Cile. Le cascate sono spazi sacri per i Mapuche, il gruppo indigeno predominante nel Paese, che hanno subito ripetuti massacri e la confisca delle loro terre da parte dei vari governi cileni. Il video di Calfuqueo termina quando i due protagonisti raggiungono la piscina sotto la cascata, si immergono nell’acqua, si avvolgono nella stoffa e si posizionano sotto l’acqua scrosciante, reclamando di fatto il loro posto nella terra isolata e un diverso modello di simbiosi rituale con l’elemento naturale.

Una biennale che riporta al centro manualità e materialità

Ora, anche solo dopo queste prime opere citate, è interessante commentare come il statement curatoriale di questa Biennale faccia in realtà riferimento all’idea di realtà oggi, anche in relazione con l’AI. 

Ci si sarebbe dunque aspettati fin da subito una biennale capace di trattare e analizzare il limite sempre più fragile fra esperienza digitale e fisica, la proliferazione disorientante di informazioni, dati e testimonianze anche visive non più affidabili perché continuamente manipolabili, le manipolazioni stesse dei corpi, fra modificazioni, estensioni e altre possibilità offerte dalla scienza e tecnologia attuale. 

Invece, la Biennale sembra privilegiare una diversa idea di tecnologia, intesa più come tecné, abilità umana di objects making, creare oggetti, per costruire il mondo materiale e umano. Tuttavia, l’esposizione si concentra principalmente sulla messa in crisi del paradigma antropocentrico sotteso a questa tecné, evidenziando i cicli storici di consumo e decadimento.

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20–August 11, 2024). P. Staff, Afferent Nerves and A Travers Le Mal, 2023. Photograph by Filip Wolak

C’è quindi un interessante e ampio ritorno alla manualità e alla materialità in questa Biennale. Lo si vede negli intrecci artigianali di fibre organiche e metalliche dell’artista messicano Ektor Garcia, nella sua ricerca di acqua con tecniche rudimentali (a cui, in uno scenario apocalittico o meno, forse dovremmo tornare).

Questa ricerca di fisicità riappare nei sensuali ed estremamente tattili cromatismi appesi dell’artista Suzanne Jackson, un’altra delle artiste riscoperte nell’ultimo anno e sicuramente una delle star anche di mercato di questa Biennale. Alcune sue opere risulteranno familiari ai visitatori italiani, essendo state esposte alla GAM di Milano grazie a Furla Foundation, in un continuo riproporsi di opere nel circuito globale dell’arte contemporanea.

Si tratta di una ricerca di costruzioni di idoli simbolici a partire dal mondo materiale, che possiamo vedere anche nelle sculture di Rose B Simpson, “Reverence”. In queste sculture che stanno una di fronte all’altra, si crea un circolo energetico di protezione e solidarietà “una ricerca di strumenti da usare per guarire i danni che ho sperimentato come essere umano nella nostra era postmoderna e postcoloniale: l’oggettivazione, la stereotipizzazione e il distacco disarmante del nostro io creativo attraverso la facilità della tecnologia moderna”

I segni sulla scultura rappresentano la direzione e la guida, in un desiderio di guarigione collettiva che ci circonda, oggi, in varie comunità. 

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20–August 11, 2024). Rose B. Simpson, Daughters: Reverence, 2024. Photograph by Audrey Wang.

Di fronte troviamo un lavoro come l’opera video di Clarissa Tossin, affiancato a repliche stampate in 3D di strumenti a fiato Maya precolombiani che sono poi suonati nel film, recuperando la loro dimensione sacra. Ma quegli antichi strumenti non sono disponibili per l’uso – isolati dal loro contesto originale e conservati dietro un vetro in collezioni museali come testimoni della nostra perdita nella relazione rituale con la realtà.

Arriviamo così all’opera forse più critica, o criticata finora della Biennale, “Demons” di Diné Yazhi. Il lavoro è volutamente telegrafico: è appeso alla finestra in modo che sia visibile dall’interno del Museo e dall’esterno, e montato su strutture che ricordano i cartelli di protesta. Il testo, scritto in neon rosso, invita le persone che lottano per la liberazione a evitare di prevedere futuri radicati in una “romanticizzazione e dipendenza dall’apocalisse” euro-occidentale. In alcuni momenti di buio e silenzio tra le lettere, qualcuno ha invece proiettato “Free Palestine”.

Tra catastrofismo, frammentazione e disorientamento collettivo

In generale, molte delle opere sembrano speculare su un senso ormai accettato e evidente di catastrofe imminente, o tracollo del modello occidentale, e in gran parte anche americano, di civiltà, in cui siamo tutti coinvolti. In modo non del tutto chiaro, le sale sono punteggiate da opere che con la loro astrazione geometrica o cristallinamente plastica, sembrano piuttosto evocare un ritorno all’utopia modernista come quella tra le due guerre, forse come simile reazione al caos globale che ci circonda – vedi le opere di Macis Pusey o Takako Yamaguchi.

In generale, la Biennale appare talvolta sclerotica e incoerente, ma proprio per questo rivelatrice dello status quo sempre più frammentato della coscienza collettiva, storica e culturale nella società odierna. Un fenomeno che può essere considerato, questo sì, come un risultato dell’intreccio sempre più stretto tra realtà, narrazioni e interazioni fisiche e digitali.Un commento su questa disconnessione o disorientamento crescente tra individuale e collettivo, tra narrazione storica e personale, si può riconoscere nell’installazione video di Diane Severin Nguyen.

Una stanza dai toni caldi, quasi erotici o comunque festivi nelle decorazioni, è al contempo un’alcova per rielaborare una storia recente del suo tempo: l’opera segue un’attrice di nome Iris mentre fa le prove per un ruolo da protagonista in un film storico di guerra sul Massacro di Nanchino del 1937, un brutale assalto ai civili cinesi da parte dell’esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra sino-giapponese (1937-45). In questa psichedelica e fantasmagorica installazione tra attuale e storico, Diane Severin Nguyen esplora i modi in cui la storia circola nel presente – in gran parte attraverso i media popolari, in parte come memoria e in parte come ri-creazione, o fan fiction.

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20–August 11, 2024). Diane Severin Nguyen, In Her Time (Iris’s Version), 2023–24. Photograph by Audrey Wang

La frattura tra storia individuale e collettiva, tra politico e individuale, sempre più presente a livello globale, è l’altro grande tema che emerge dalla Biennale. A questo si aggiunge la tensione costante tra desiderio di visibilità e invisibilità.

Rispetto alla relazione fra realtà della coscienza fisica e mediatica, la Biennale pone l’accento sulla crescente disconnessione tra architettura, spazio pubblico e inconscio. Più di un’opera denuncia la perdita di simboli e di punti di riferimento narrativi e fisici stabili su cui fare affidamento per orientarsi nello spazio urbano contemporaneo.

Un esempio è l’opera di Dora Budor, che esplora Hudson Yards e le aree circostanti. Si tratta del più grande e costoso sviluppo immobiliare privato della storia americana, inaugurato nel 2019 a circa un miglio a nord del Whitney Museum. L’artista utilizza un iPhone montato su un giunto cardanico per catturare i luoghi scintillanti, mentre un dispositivo di piacere vibrante collegato alla fotocamera disturba la loro serenità. L’opera suggerisce un’alienazione comunemente sperimentata in città sempre più dominate dall’architettura aziendale e dalla gentrificazione.

C’è chi invece cerca di ritrovare e preservare la relazione tra società, cultura e oggetti, tra memorie individuali e collettive. Un esempio è l’opera di Eduardo Aparicio, dove rovine di quotidianità vengono accumulate in un corpo in ambra arborea che cambia nel tempo. Muovendosi in relazione alla luce e al calore dell’ambiente, l’opera rappresenta uno sviluppo organico delle memorie collettive secondo il ciclo tra generazione e rigenerazione.

Gran parte delle opere in mostra cercano quindi di rimediare al senso di disorientamento generale odierno, ricorrendo all’idea dell’incontro dal vivo e dell’esperienza fisica. L’obiettivo è quello di vivere l’opera d’arte con tutto il corpo. Tuttavia, anche la coscienza e consapevolezza del nostro corpo, delle sue sensazioni e movimenti, e le relazioni tra la sfera psichica e quella fisica, si fanno sempre più frammentate e contrastate. Questo è dovuto anche alla rimessa in discussione delle stesse categorizzazioni dei corpi a livello sessuale, razziale e di specie.

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better Than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20- August 11, 2024). Eddie Rodolfo Aparicio, Paloma Blanca Deja Volar / White Dove Let Us Fly, 2024. Photograph by Ron Amstutz

Julia Phillips Nourisher presenta un torace e un parziale calco del viso che guarda verso il basso, riflettendo sull’esperienza dell’allattamento. L’opera esplora questa dimensione come una fluida condivisione e scambio di risorse, in cui la connessione corporea assume la forma di tubi chirurgici, creando un’immagine clinica e ambivalente della maternità.

Per Jes Fan, il corpo diventa invece un luogo di creazione e reinvenzione; le quattro sculture presentate sono state create a partire da TAC stampate in 3D del corpo dell’artista. La ferita diventa un’allegoria di uno stato interiore dell’essere, suggerendo che qualcosa di prezioso potrebbe essere generato dalle ferite invisibili portate dai corpi queer e di colore.

Per concludere, in questa Biennale, la precarietà e l’idea di frattura storica e collettiva sono vissute concretamente attraverso i media artistici e lo stesso discorso curatoriale di fondo. Questo riflette a pieno una condizione condivisa, che costringe a una nuova interrogazione e negoziazione della nostra presenza a vari livelli.

Ci troviamo sospesi tra narrazione virtuale e fisica, tra tracce di ossa e di dati che ormai si compenetrano nella realizzazione della nostra esistenza. In un mondo dove sistemi secolari di valori, ideologie, categorizzazioni e le stesse istituzioni sono sempre più messi in discussione, fatichiamo a trovare alternative.

Questo perlomeno mentre  rimaniamo in attesa di un più ampio risveglio collettivo che riporti l’umano alla sua essenza in una prospettiva di multiculturalità e universalità, e una scena culturale  e artistica capace di elaborare e sviluppare in modo  più definito e coeso questo messaggio, visto che nessuna Biennale o mostra può comunque cambiare il mondo. 

La Whitney Biennial 2024 è on view fino  all’11 di Agosto

Installation view of Whitney Biennial 2024: Even Better than the Real Thing (Whitney Museum of American Art, New York, March 20–August 11, 2024). Demian DinéYazhi ́, we must stop imaging apocalypse / genocide + we must imagine liberation, 2024. Photograph by Nora Gomez-Strauss
Elisa Carollo
Elisa Carollo
Elisa Carollo è art advisor, curatrice e appraiser conforme alla normativa USPAP, con un focus particolare sull' arte contemporanea e ultracontemporanea. Ha conseguito un master in Art, Law and Business presso Christie's New York e un BA in Marketing e management delle industrie culturali e creative presso l'Università IULM di Milano. Lavora come consulente freelance per collezionisti, gallerie e artisti e collabora stabilmente con la Fondazione Imago Mundi di Treviso. Fa parte del gruppo curatoriale della Fondazione Quadriennale per il monitoraggio della scena artistica contemporanea italiana e dell'IKT (International Association of Curators of Contemporary Art). È parte del team della start-up Innextart. Fra le mostre organizzate, le prime personali in Italia di artisti come Kennedy Yanko, Veronica Fernandez, David Antonio Cruz e a curato a New York il programma del Pintô International.

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