Il profumo dei libri, dell’inchiostro che, nel tempo, si mescola agli odori degli artisti, dei colori, dei piatti che la madre cucinava, quasi ogni sera, per i tanti ospiti che frequentavano la casa paterna, tra pittori, scultori, collezionisti e amici mercanti. Il racconto di Marco Niccoli che oggi, assieme al fratello Roberto, guida l’omonima galleria d’arte di famiglia, parte dalle qualità organolettiche dell’arte che, come le celebri petites madeleines di zia Leonie, aprono i cassetti di mezzo secolo di storia a cui, peraltro, Covid-19 permettendo, è dedicata una bellissima mostra museo APE di Parma: Attraverso le Avanguardie. Giuseppe Niccoli / visione e coraggio di una Galleria.
Con Marco ci siamo sentiti un paio di volte per telefono e, poco prima che la Toscana piombi in zona rossa, ci ritroviamo ospiti degli amici della Galleria Il Ponte di Firenze che ci offrono asilo per una chiacchierata senza freni. Il racconto scorre impetuoso e servirebbe un libro per raccoglierlo tutto e non perdere sfumature che sono racconti di vita e lezione di come si dovrebbe interpretare il ruolo del gallerista in modo serio. Ma quello esiste già, l’ha curato, bellissimo, Marco Meneguzzo ed è un capitolo prezioso della nostra storia. E presto ne arriverà anche uno nuovo, curato dagli stessi Roberto e Marco Niccoli.
Ancora una volta gli odori, quello dolce di tabacco che avvolge Marco, quello dei libri che ci circondano e dei quadri. La nostra chiacchierata non potrebbe avere “colonna sensoriale” più appropriata. Sì, perché la storia della Galleria Niccoli di Parma è una storia fatta di libri, di arte e di libri d’arte e, guarda caso, inizia proprio nella mia Toscana.
«Mio padre Giuseppe era di origine calabrese ma è cresciuto in Toscana, a San Miniato, dove mio nonno si era trasferito per motivi di lavoro. Era il terzo di 6 figli e, ad un certo punto, a due esami dalla laurea in giurisprudenza, per motivi economici deve lasciare gli studi per cercarsi un impiego».
Siamo tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e questo potrebbe essere l’inizio di molte storie. Ma quella è anche l’Italia del Boom e, se ci sai fare, magari puoi ritagliarti un bel posto in società. Giuseppe Niccoli inizia allora a vendere libri diventando agente della Rizzoli che, a metà anni Sessanta, lo incarica di aprire delle Agenzie di rappresentanza. Tra le città selezionate Trieste, dove vivrà alcuni anni insieme alla moglie Liliana, e soprattutto Parma.
E’, infatti, tra le nebbie della città di Maria Luigia che il padre di Roberto e Marco inizia il suo cammino che lo porterà ad essere uno dei galleristi più importanti del nostro Paese. Quello, tanto per intendersi, da cui negli anni partirà la riscoperta di tanti artisti italiani ingiustamente finiti in un cono d’ombra. Tra gli altri: Paolo Scheggi, Agostino Bonalumi e gli italo-americani Salvatore Scarpitta e Conrad Marca-Relli.
Alla fine degli anni Sessanta, però, Giuseppe Niccoli è un libraio dallo spiccato “pallino” per l’arte. Acquista tutte le nuove pubblicazioni d’arte stampate dagli editori italiani e così si specializza, divenendo un punto di riferimento per molti collezionisti e amatori.
L’era Amazon è distante anni luce, d’altronde, e un magazzino librario tanto fornito non poteva non attirare l’attenzione di un pubblico così particolare. E poi, là fuori, c’era Parma, una città elegante, di provincia certo, ma anche il luogo in cui nel 1968 Arturo Carlo Quintavalle fonda il Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università cittadina e inanella una serie di mostre che faranno la storia: Schifano, Pistoletto, Ceroli e Melotti alla Pilotta; Ettore Colla al teatro Farnese. Tanto per citare alcuni esempi.
Insomma, l’ambiente è quello giusto, le frequentazioni anche. Non resta che fare il salto e, nel 1970, la galleria inizia a farsi spazio nel piano interrato della libreria, per poi conquistare l’intero locale nel 1978.
Visione e Coraggio, evidenzia il pay-off della mostra al museo APE, e visione e coraggio sono proprio le linee guida che da sempre muovono l’operato della Galleria Niccoli che apre ufficialmente i battenti proprio in quell’ultimo scorcio degli anni Settanta.
«Mio padre – mi racconta Marco Niccoli forse non è mai stato un gallerista in senso stretto, come non lo siamo neanche noi, in parte. Non ha mai scoperto talenti nuovi, ma ha sempre preferito rimettere in ordine la storia attraverso i testi presenti. Rubando, in un certo senso, il mestiere ai musei che, però, non lo facevano».
Giuseppe Niccoli studia, si interroga, cerca di cogliere, tra le pieghe dei racconti degli artisti che conosce, nomi dimenticati ma fondamentali per la storia dell’arte. E parte da lì.
«Quando ero ragazzo – racconta Marco – lo accompagnavo da Fabio Mauri o da Pietro Consagra. Dorazio era amico di famiglia, Carla Accardi, Achille Perilli, Alberto Burri… tutto sommato fu facile, parlando tra cene, pranzi e mostre, cogliere queste sfumature d’arte che non erano riordinate. Certi nomi venivano sempre fuori, Scarpitta, Paolo Scheggi e nessuno di questi aveva un mercato. Lo stesso si può dire di Afro che negli Settanta aveva, sì, un suo collezionismo, ma non c’erano milioni di persone che lo volevano».
Inizia, così, un lavoro di ricostruzione di carriere, di riordino di vite artistiche di valore, ma trascurate da un Paese che non ha mai avuto grande attenzione per queste cose. Con passione quasi filologica, nascono libri e mostre importanti: l’Art Club, il Mac, Forma 1, la Pop art italiana, l’Arte cinetica e programmata. E poi, Ettore Colla, Emilio Vedova, Giuseppe Capogrossi e i già citati Scheggi e Bonalumi. Ma negli anni arriveranno anche gli italo-americani Salvatore Scarpitta, Conrad Marca-Relli – di cui creeranno l’archivio – e Angelo Savelli.
Questo del “riordinare” la storia dell’arte diviene un vero e proprio marchio di fabbrica, proprio come il fatto di non prendere opere in conto vendita, ma di acquistare sempre tutto il possibile. Per poter gestire al meglio e per dimostrare di credere veramente in quello che stava facendo.
Operazioni talvolta rischiose, come quando, negli anni Ottanta, acquista buona parte del magazzino della Galleria di Arturo Schwarz: Man Ray, Picabia, Le cadavre esquis, la celebre Fontana di Duchamp dove, un giovanissimo Marco Niccoli, assieme al fratello, giocava a pallina. Aneddoti di una vita veramente spesa in mezzo all’arte.
Come quello legato a Fausto Melotti che chiamava il padre di Marco “il gallerista che non vende”. «Mi ricordo questo furgone della Peugeot – mi racconta – che puzzava di gasolio e che partiva al mattino pieno di sculture di Melotti, non imballate o imballate male. Io rimanevo affascinato dal loro tintinnio, ma come partivano tornavano». Vendere Melotti, come tanti degli artisti che trattava, non è d’altronde sempre cosa semplice e fin dai primi anni Ottanta, la Galleria Niccoli lavora sul mercato nazionale e, contemporaneamente, si apre a quelli internazionali come il Giappone.
Le cose girano bene e quel modus operandi, un po’ folle e un po’ geniale, alla lunga ripaga gli sforzi non solo economici. Tanto che oggi, 50 anni dopo, è ancora uno dei pilastri della Galleria Niccoli: «Quando vent’anni fa ho comprato intere mostre a carissimo prezzo da Sergio Lombardo – chiosa Marco Niccoli ridendo – sono passato per pazzo anche all’occhio di mio padre, ma con la solita visione, guardando sull’orizzonte lungo, non ci siamo mai sbagliati. Non perché siamo dei maghi, ma perché leggiamo i libri. Il segreto è tutto lì».
Quel “segreto” o, meglio, quel metodo, in grado di garantire una certa prosperità e longevità: «Alla fine – commenta – in periodi di difficoltà come questo, vedo che a rimanere in piedi con tranquillità sono persone che forse come noi in un certo momento sono state fuori moda, ma con un substrato storico: Galleria dello Scudo, Lorenzelli di Milano, Tucci Russo siamo pezzi di storia, dove hai know-how, magari in certi casi un po’ impolverato, però c’è metodo».
Quel metodo che ti chiede di avere coscienza, responsabilità e coraggio. Non a caso Giuseppe Niccoli è sempre stato molto amico di galleristi come Liliana Dematteis della Galleria Martano e Luciano Pistoi della Galleria Notizie – entrambi di Torino -, Caterina Gualco della Galleria Unimedia di Genova, Carla Pellegrini della Galleria Milano e Plinio De Martiis della galleria La Tartaruga di Roma.
Perché un gallerista, il mercato, dovrebbe guardarlo in faccia, crearlo e non seguirlo, altrimenti, spiega, «gli artisti li uccidi, specialmente in un Paese come il nostro in cui lo Stato non li protegge. Assecondare il mercato come fanno molti galleristi di nuova generazione e le case d’asta, invece, ha portato alla formazione di una classe di compratori isterici e poco coscienti invece che di una classe di collezionisti, magari più “tirati”, come quelli di un tempo, ma che quando aprono il portafoglio comprano perché amano l’arte».