Il 9 aprile prossimo si inaugurerà a Venezia la prima grande mostra monografica di Damien Hirst in Italia dai tempi della retrospettiva del 2004 al Museo Nazionale Archeologico di Napoli. Treasures from the Wreck of the Unbelievable, organizzata dalla Collezione Pinault e curata da Elena Geuna, per la prima volta vedrà coinvolte per un unico evento entrambe le sedi della Collezione, ovvero Palazzo Grassi e Punta della Dogana.
Damien Hirst (1965) è un artista controverso, segnato — forse più nel male che nel bene — dall’aura pubblicitaria di scandalo, del resto da lui perseguita lucidamente, legata a un’impressionante serie di “colpi” di grande risonanza mediatica: dalla celebre mostra Freeze, da lui ideata e curata nel 1988 assieme ad altri studenti del Goldsmiths College di Londra, che costituì la nascita di quel gruppo di artisti poi noti come Young British Artists, alla sponsorizzazione del movimento da parte del magnate Charles Saatchi (uno dei primissimi esempi di “manipolazione del mercato” dell’arte); dall’offerta di fondi illimitati, da parte dello stesso Saatchi, per la realizzazione di un’opera — il risultato sarà il famoso squalo in formaldeide divenuto un’icona del lavoro di Hirst e dell’arte degli anni Novanta — al debutto alla Biennale di Venezia del 1993, dove Hirst espose Mother and Child / Divided, una mucca e un vitello sezionati e messi in formaldeide in teche separate; dal Turner Prize vinto nel 1995 fino all’exploit dell’asta monografica organizzata dall’artista direttamente con Sotheby’s nel 2008, scavalcando di fatto gallerie e mercanti con cui abitualmente collaborava, il cui ammontare totale del venduto arrivò a quasi 112 milioni di sterline, superando ogni previsione (e rendendolo uno degli artisti più ricchi del mondo).
Hirst non ha mai fatto mistero della cura per il calcolo delle proprie mosse collegata ai ritorni pubblicitari ed economici, ma ciò — unito alla creazione di una vera e propria factory con assistenti cui spesso viene demandata la realizzazione pratica dei suoi progetti, nonché alle numerose accuse di plagio mosse contro di lui — non ha favorito un discorso critico sulla sua opera scevro da pregiudizi. Di fatto alcune opere di Damien Hirst, come si diceva, sono diventate icone dell’arte degli anni Novanta e Duemila, così come quelle di Jeff Koons, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat hanno segnato gli anni Ottanta: su questo non si può discutere e, aggiungerei, se sono diventate tali il motivo è che, al di là del loro valore estetico intrinseco, rappresentano perfettamente il momento storico e artistico in cui sono nate.
È vero, come sovente è accaduto con gli artisti degli ultimi venticinque anni, che alcune trovate iconiche dell’artista non sono del tutto originali (e non mi riferisco qui alle suddette accuse di plagio mosse a Hirst da suoi colleghi coetanei): le pillole antidepressive erano già state inglobate da Giulio Turcato in alcune sue opere degli anni Cinquanta; il teschio è presente già in varie opere di Daniel Spoerri degli anni ’70, la più celebre delle quali è forse Ni retour ni consigne del 1976; le statue monumentali come Verity o The Virgin Mother hanno come riferimento gli Spellati dell’Archiginnasio di Bologna — è non è da escludere che Hirst (artista coltissimo che ha visitato ampiamente l’Italia) conoscesse benissimo questi “antecedenti”.
Quel che sicuramente resta originale in Hirst è l’idea di affrontare il tema della morte in quella peculiare maniera, che si tratti dello squalo in formaldeide, il cui titolo è The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living [“L’impossibilità fisica della morte nella mente di qualcuno in vita”], o delle larve divenute mosche che cercano di raggiungere una testa di vitello mozzata entro una teca divisa in due parti da una griglia moschicida (A Thousand Years, 1990). Una rappresentazione perfetta dell’angoscia contemporanea rispetto al reale in senso lacaniano: «Lacan distingue tre luoghi psichici fondamentali: il simbolico, l’immaginario e il reale. Quest’ultimo è qualcosa di radicalmente diverso dal vero: esso è estraneo al linguaggio e alla dimensione simbolica. Anzi è proprio ciò che resiste alla simbolizzazione. […] L’incontro col reale genera angoscia e trauma: infatti, dinanzi al reale, vengono meno tutte le parole e le categorie. Il trauma sembra perciò ad Hal Foster come la nozione più adatta per interpretare l’arte di oggi. […] È il cadavere a costituire l’oggetto perturbante per eccellenza dell’arte di oggi: esso è la cosa in cui terrore e abiezione, repulsione e attrazione si avvicinano e si confondono nell’esperienza ambivalente e ancipite del gusto. Forte è la tentazione di fare del disgusto la categoria principale dell’estetica contemporanea. […] Il disgustante si impone a chi lo prova con una prossimità e una contiguità che manca sia all’angosciante sia all’odiabile: esso si comporta in modo provocante, si avvicina e si spinge contro di noi, suscita non solo repulsione ma anche un’attrazione repressa. […] Anche per Kolnai il disgustante per eccellenza è il cadavere: […] esso ci è qualcosa di estremamente prossimo, perché rappresenta l’unica destinazione assolutamente certa del nostro corpo» (Mario Perniola: L’arte e la sua ombra, Torino, Einaudi, 2000: pp. 8-9). E ancora Perniola: «Nelle tendenze artistiche più avanzate la struttura tradizionale di separazione tra l’arte e il reale sembra crollata definitivamente: è nato una specie di “realismo psicotico” che fa saltare ogni mediazione. L’arte perde la sua distanza nei confronti della realtà e acquista una fisicità e una materialità che non aveva mai avuto prima: la musica è suono, il teatro è azione, l’arte figurativa ha una consistenza insieme visiva, tattile e concettuale… Essi non sono più imitazione della realtà, ma realtà tout court non più mediate dall’esperienza estetica» (Ibid.: p. 31).
Damien Hirst si inserisce perfettamente nella Weltanschauung del suo tempo cogliendone il lato oscuro; verrebbe da dire: non sono le sue opere a suscitare repulsione, ma l’essenza del mondo che rispecchiano (che infatti ne ha anche decretato il successo di mercato). Alla rimozione della caducità tipica della cultura dell’effimero va ricondotta anche l’ironia macabra che si affaccia in alcune opere di Hirst, come pure la giocosità venata di amarezza che si ritrova in opere come I Want To Spend The Rest Of My Life Everywhere, With Everyone, One To One, Always, Forever, Now [“Voglio passare il resto della mia vita dovunque, con tutti, uno per uno, sempre, per sempre, ora”] del 1991, il cui titolo contrasta con l’“immobilità in movimento” di una pallina da ping pong tenuta sospesa in aria dal getto di un compressore.
Tutta l’arte, inclusa questa arte, va sempre e comunque vista ed esperita dal vivo, anche se purtroppo ci stiamo lentamente ma inesorabilmente abituando a ragionare spesso sulla base di riproduzioni fotografiche cui concediamo statuto di verità. Ma il carisma, l’aura — con buona pace di Walter Benjamin — dell’opera presente rimane assolutamente insostituibile. Andremo quindi a vedere cosa questo ineffabile prestigiatore dell’arte contemporanea materializzerà dal suo cilindro a Venezia in questa mostra che, con la solita ineccepibile strategia mediatica, è stata preceduta da informazioni filtrate al pubblico col contagocce. Dovrebbe essere la prima mostra, dopo vari anni, in cui Hirst presenterà una nuova serie di opere; sarebbero dieci anni che l’artista sta lavorando a questo progetto; sul sito della Collezione Pinault vengono presentati solo due brevissimi, enigmatici video di ambientazione subacquea; nessun collezionista, neppure tra i più celebri, ha potuto vedere in anteprima le opere né riceverne delle foto (pare che l’unico tipo di anticipazione sia stato fornito dalle due gallerie di Hirst, la Gagosian di New York — con cui l’artista è tornato a collaborare da circa un anno dopo il “divorzio” del 2012 — e la White Cube di Londra, i cui gestori hanno mostrato ai potenziali acquirenti immagini di alcune opere direttamente dal loro iPad). Eccetera eccetera.