Sarà per deformazione professionale, ma la prima cosa che mi ha colpito di Teresa Maresca, quando ci siamo conosciuti telefonicamente, è stata la sua voce. Una voce gentile e carezzevole, serena e solare, di una persona con cui è facile entrare in sintonia. Come infatti è avvenuto fin dal primo momento. Poi le sue nuove opere. Notoriamente non sono amante della figurazione affermatasi negli anni Ottanta — Transavanguardia, Neue Wilden… — cui Teresa in parte si ricollega, ma le immagini lunari, oniriche, misteriose di foreste americane in cui si aggirano uomini ridotti a ombre che vengono come assorbite dalla natura, mi hanno catturato. Si tratta del suo nuovo ciclo pittorico, dal titolo whitmaniano Song of myself, che verrà esposto a metà ottobre alla Galleria d’Arte Moderna di Genova e nella primavera successiva all’Acquario Civico di Milano. Sono andato a trovare Teresa nel suo studio milanese dove abbiamo passato un intero pomeriggio a chiacchierare di tutto (e di più), anche di pittura…
Sandro Naglia: Anche se il titolo della futura mostra, Song of myself, è tratto da Walt Whitman, partirei invece da Thoreau: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi…”
Teresa Maresca: «In questi ultimi lavori rientra certamente anche Thoreau, che è in qualche modo il filosofo alle spalle di Whitman. Il pensiero trascendentalista di Thoreau e di Emerson ha ispirato molta pittura americana dell’Ottocento. L’uomo possente in cammino tra i boschi, attraverso le acque dei grandi fiumi, rappresentava la fondazione del Nuovo Mondo, un mondo “finalmente proporzionato alla natura”, come scrive Whitman. Un Nuovo Mondo regolato dal grande mito della Democrazia, ma basato sulla centralità della Natura. Emerson e Thoreau pensavano alla loro America passeggiando nei boschi, e territorio e nazione diventavano uno».
S.N.: Di qui questo ciclo di dipinti che ritrae foreste e ombre di bagnanti alla luce della luna. Parlami del progetto della mostra, che peraltro prosegue una tua ricerca sull’America, dopo i cicli Americana e Swimming pools…
T. M.: «I quadri sono ispirati a due poems di Walt Whitman: Ventotto giovani e Canto della Sequoia. Giovani uomini si immergono nudi in un fiume, in una natura lunare. Il tema della nudità qui è fondamentale: parte dall’iconografia classica della donna bagnante — coniugata da Tiziano fino a Cézanne, e poi Courbet, Picasso — per arrivare a Caillebotte e Munch, che per primi dipinsero nudi maschili nell’atto di bagnarsi. Quelli di Munch sono molto belli, molto forti. Credo che tutta la figurazione contemporanea, soprattutto quella tedesca e anglosassone, debba molto al modo che ha Munch di rappresentare il corpo maschile. In questo mio nuovo ciclo ci sono sono poi tele in cui la presenza umana è invece assente, e protagonista è la grande sequoia rossa, il red oak tree, che nel poema di Whitman parla in prima persona. Queste opere proseguono un lavoro sul paesaggio americano, affrontato appunto in Americana — dove apparivano resti di costruzioni abbandonate nell’immenso deserto delle vecchie strade provinciali in disuso — e in Swimming pools. Entrambi questi cicli facevano esplicito riferimento ai film americani di Wenders, e a The Swimmer, un film del 1968 con Burt Lancaster, tratto da un racconto di John Cheever. La futura mostra dovrebbe essere costituita da una ventina di nuove opere — olii e acrilici su tela di media e grande dimensione — più, forse, qualcosa dalla serie delle Piscine».
S. N.: La scelta delle ombre al posto delle figure definite è un’astrazione legata all’idea del chiaro di luna o è la deliberata voglia di dipingere delle ombre?
T. M.: «È il desiderio di cancellare la figura, di fare delle ombre, rendendo invece più nitido il paesaggio, i tronchi d’albero. Anche qui, seguo l’ispirazione del Canto della Sequoia di Whitman. Volevo che il paesaggio vincesse sulla sagoma, che gli uomini apparissero solo come sagome — e infatti sono andata dipingendole e successivamente oscurandole — e che il paesaggio sembrasse in proporzione più grande. Anche se in uno di questi quadri la figura mi ha forse un po’ preso la mano, ed è accaduto che abbia finito col vincere lei».
S. N.: In genere lavori per cicli, ragioni per cicli…
T. M.: «Non ho l’abitudine di fare un discorso di produzione come spesso le gallerie richiedono, per questo lavoro sempre più con gli spazi museali e pubblici in genere. Ho tempi legati alla concezione di un ciclo organico: tempi di gestazione piuttosto lunghi, perché a volte voglio rivedere un film, rileggere un libro, cercare un elemento che mi confermi nella messa a fuoco del mio soggetto. A volte, non sempre, disegno o uso i pastelli. Ma quando la forma si è definita, la realizzazione di quel ciclo di opere può essere molto rapida».
S. N.: Vedendo le tue opere — soprattutto il ciclo Americana — viene spontaneo il richiamo a Edward Hopper…
T. M.: «Certo: viene sempre citato Hopper, ma in realtà vi è solo identità di alcuni soggetti, come i distributori di benzina. Amo i Neue Wilden e il Neoespressionismo (meno la Transavanguardia) ma a mio modo cerco di inserirmi in una linea… che non esiste, ma che io vedo partire da Munch, per arrivare a Sutherland, e poi Salomé, Fetting, fino a Basquiat e Schnabel. Mi interessa quel modo di rappresentare il corpo, e gli oggetti o la natura, quel modo scabro che restituisce al corpo della pittura tutta la sua centralità. Umano, cose e natura al centro, in un discorso forte. Un soggetto in pittura è solo un pretesto. In quanti modi si può dipingere un fiore? Mi rendo poi conto, però, di come venga pure fuori — anche in Americana — tutto un retaggio di tradizione di pittura italiana: pensa alle marine deserte di Carrà, a De Pisis… in questo tipo di mostrificazione del dettaglio, di esagerazione del dettaglio: pensa alle conchiglie enormi, alle figure piccole sulla spiaggia di De Pisis…»
S. N.: È vero: oltretutto, vedendoli da vicino, nei tuoi quadri la pennellata sembra restare sempre in bilico tra il disteso e il materico un po’ alla maniera di De Pisis — specie il De Pisis dell’ultimo periodo. E penso a certe figure di Carrà, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta… E, proseguendo in questo discorso a cavallo tra influenze e tecnica pittorica: mi piace il fatto che tu usi tonalità scure, sia nell’ambito dei rossi che dei blu, che però non risultano aggressive, le trovo dolci anche se di per sé non sarebbero usualmente associabili a un’idea di dolcezza…
T. M.: « Ci sono toni che a un certo punto sposano questi colori, li avvicinano: dei viola che potresti percepire più verso il rosso o verso il blu a seconda della luce generale del quadro o del colore che gli sta accanto. Questi rossi, che nascono come rossi di terre — ruggine, ossidi — e che però accanto al verde virano verso l’arancio: l’accostamento al verde tira fuori riflessi aranciati alla vista».
S.N.: Sei sposata con Roberto Mussapi, uno dei più importanti poeti italiani. Il tuo rapporto con la poesia?
T. M.: «Stretto, ovviamente, anche se la poesia utilizza una sintesi diversa, estrema direi. La pittura è anche narrazione, racconto. Ho realizzato collaborazioni e cartelle di grafica con poeti come Bonnefoy e Carifi, oltre che ovviamente con Roberto. Di recente Maurizio Cucchi ha scritto alcune poesie appositamente per una mia installazione sull’arte paleolitica (la pittura rupestre è una mia vecchia passione), e in quel caso è stato proprio il racconto di quei primi artisti-sciamani a incuriosire il poeta, e a farlo dialogare addirittura con il potente archetipo animale dipinto sulle caverne. Nelle poesie di Cucchi l’animale viene fuori dalla caverna dell’anima, come nei miei quadri veniva fuori dal buio della grotta. La sintesi del poeta si è affiancata al racconto per immagini del pittore, è stata una bella esperienza!».
[infobox maintitle=”Per il collezionista” subtitle=”Teresa Maresca vive e lavora a Milano. Dal 1992 ha iniziato a esporre in mostre personali e collettive presso istituzioni museali e gallerie in Italia e all’estero, tra cui il Museo Marino Marini di Pistoia, la Biennale di Venezia, il Museo Diocesano di Milano, la Galerie Artemisia a Parigi, Poggiali&Forconi a Firenze, Kunsthalle Jameln di Amburgo, Breux Contemporary Art di Houston. Ha realizzato diverse edizioni d’arte con testi poetici di Yves Bonnefoy, Roberto Mussapi, Roberto Carifi. Hanno scritto di lei, tra gli altri, Carlo Sini, Roberto Sanesi, Lalla Romano, Giuseppe Conte, Angelo Crespi, Sergio Givone, Paolo Biscottini. Sue opere sono conservate presso il MUSIL di Brescia, il Museo del Lavoro ex-Falck di Sesto S.Giovanni, il Museo Diocesano di Milano e la Breux Contemporary Art di Houston. I prezzi delle sue opere (olii o acrilici su tela) si aggirano intorno ai 7.000 euro, per la misura di cm 100×100.” bg=”gray” color=”black” opacity=”off” space=”30″ link=”no link”]