A novembre compirà 80 anni, di cui più di 60 dedicati instacabilmente all’arte in una ricerca continua e innovativa, in cui il segno è utilizzato come strumento espressivo capace di raccontare le sue emozioni personali e le sue reazioni verso la realtà esterna, ma anche come cifra di un linguaggio partecipe dello spirito del suo del suo tempo, tra post-informale, arte programmata, pop e vari ritorni alla pittura. Stiamo parlando di Agostino Ferrari, storico membro del Gruppo del Cenobio, a cui il Museo del Novecento di Milano, a partire dal 22 giugno prossimo, dedicherà una grandissima antologica: Agostino Ferrari. Segni del Tempo.
Attraverso opere di grande e grandissimo formato, piccoli lavori storici e un prezioso corpus di disegni e progetti – che per la prima volta ci aprono le porte agli aspetti più intimi della sua pratica artistica – la mostra curata da Martina Corgnati ci guiderà a ritroso attraverso l’intero percorso dell’artista milanese. Regalandoci l’opportunità di approfondire un importante capitolo della nostra storia dell’arte del secondo dopoguerra. E appuntamento principale di un palinsesto di eventi incentrato sulla figura di Ferrari che, tra gli altri, comprende anche la presentazione della prima edizione del catalogo ragionato della sua opera (27 settembre).
Agostino Ferrari: l’artista “del segno”
Alla fine del 1962 incominciai a usare il segno come scrittura non significante… oggi esiste ancora la consapevolezza del reale, che rappresento come ho sempre fatto, sviluppando un tema con segni e forme. Contemporaneamente esiste tutto quello che non conosco sull’uomo e la sua vita, una superficie nera che sta oltre l’esistenza, prima della nascita e dopo la morte, il vuoto e il buio, la limitatezza del nostro pensiero rispetto a quell’infinita-mente grande. (Agostino Ferrari)
Nato a Milano il 9 novembre 1938, Agostino Ferrari fa il suo debutto ufficiale nel mondo dell’arte nel 1961, quando espone alla galleria Pater, presentato da Giorgio Kaisserlian. E’ in questa occasione che incontra, per la prima volta, Lucio Fontana e gli artisti con cui l’anno successivo fonderà il Gruppo del Cenobio: Angelo Verga, Ettore Sordini, Arturo Vermi e Ugo La Pietra. I giovani milanesi vogliono “salvare la pittura” interpretandola e rinnovandola così da renderla gesto puro, primitivo ma al contempo proteso verso il futuro.
L’avventura del Cenobio è breve, intensa, giusto un paio di anni, ma dopo lo scioglimento del gruppo, Ferrari continua a coltivare il segno come scrittura non significante. Nella seconda metà degli anni Sessanta, complice anche un primo soggiorno statunitense che lo vede esporre nel 1966 a New York, il suo lavoro acquista una consistenza oggettuale, in parallelo alle coeve esperienze degli amici Agostino Bonalumi, Enrico Castellani e soprattutto Dadamaino.
Il segno diventa incisione, traccia rappresentata o filo metallico in rilievo; la sua ricerca si rivolge anche alla forma, ottenuta attraverso un metodo rigoroso, di carattere processuale che suscita l’interesse e l’apprezzamento di Fontana. Siamo alla fine degli anni Sessanta e le sue indagini su segno, forma e spazio lo portano alla creazione di Autoritratto, l’unica installazione realizzata da Ferrari nella sua carriera, esposta per la prima volta ad Arte Fiera, a Bologna, nello spazio della torinese L.P.220 e poi nella personale al Palazzo dei Diamanti di Ferrara del 1971.
Dopo segno, forma e spazio, l’attenzione di Ferrari si rivolge adesso al colore, che indaga in relazione a diverse figure geometriche, con un procedimento lucidamente razionale e tale da evitare qualunque implicazione espressiva. Arriva poi la fine degli anni Settanta, che lo vede esporre ancora negli Stati Uniti, a Dallas (1978). E’ in questi anni che si apre per lui una fase di ripensamento e di bilanci, definita “rifondazione”, che lo porta a recuperare un segno più gestuale che da quel momento non lascerà più.
Moduli e grafie illeggibili, di consistenza diversa, talvolta impreziosite da uno spessore di sabbia nera vulcanica e brillante, si moltiplicano attraverso nuovi cicli che impegnano l’artista per alcuni decenni, dagli “Eventi” ai “Palinsesti” alle “Maternità”, dove uno schema centrale (matrice) è ripetuto nella fascia più esterna del quadro, dando luogo a una ripresa con valori tonali invertiti.
Si giunge così ai recenti “Oltre la soglia” e “Interno-esterno”, caratterizzati dalla presenza di uno squarcio colmo di impenetrabile nero in cui il segno si immerge o da cui fuoriesce, come per connettersi all’esperienza positiva della luce con l’indefinibile alterità del nuovo spazio rivelato da Lucio Fontana con i suoi squarci e i suoi fori nella tela.
Sullo sfondo la Milano post-informale di Manzoni & Co.
Milano. Gli anni Cinquanta scivolano rapidamente verso i Sessanta. In un’Italia rivitalizzata dal boom economico, la scena artistica è in fermento. Una nuova generazione di artisti, illuminata dalla luce guida di Lucio Fontana e dalle esperienze dello spazialismo e del nuclearismo, inizia il suo cammino di reazione ad un Informale che si addentra sempre di più in una fase di ripiegamento su se stesso, facendosi “maniera”.
E’ in questo momento che sulla scena si affacciano le esperienze radicali di Piero Manzoni, Enrico Castellani e della rivista Azimuth, e quelle dei Gruppi T e N che inaugurano la stagione dell’Arte Programmata. Tutte esperienze indirizzate, come ricorda Luciano Caramel, verso un “azzeramento da cui muovere per riattivare quella ‘funzione comunicativa’ compromessa dall’Informale”, dal suo “soggettivismo, dalla sua espressività diretta, immediata, e in più casi automatica”.
La necessità sentita dai giovani, ma non solo, è quella di rinconquistare “un’oggettività di procedimenti – scrive Caramel -, fino anche alla concreta oggettualità, e con pressanti intenzionalità di comunicazione”, in direzione di una nuova concezione artistica che andava oltre la pittura, verso la “tabula rasa delle esperienze estreme“.
Ma questa è la storia dell’arte italiana del dopoguerra che conosciamo tutti, vuoi perché l’abbiamo studiata nei manuali, vuoi perché negli ultimi vent’anni, complice il mercato dell’arte, tali ricerche d’avanguardia hanno assunto una nuova centralità anche tra il grande pubblico interessato all’arte.
Come sempre accade, però, quando ci si rivolge solo alla “grande storia dell’arte”, inevitabilmente si omettono capitoli significativi per le realtà nazionali, che vengono tagliati come in un montaggio cinematografico, per dare alla narrazione un ritmo più fluido, fatto solo di pietre miliari. Ma quando il gusto si fa più raffinato e il palato si evolve, preparandosi a gustare anche sapori più di nicchia, ecco che la curiosità cresce e si va a cercare anche in quegli angoli del discorso artistico che il tempo, spesso distratto, ha lasciato in ombra.
Angoli fondamentali per comprendere a pieno interi periodi. E allora, per capire l’Italia artistica degli anni Sessanta non si può prescindere da quelle esperienze che oggi, magari, non fanno parte del mainstream del mercato globale, ma che completano il quadro storico di una scena artistica italiana dalle mille sfaccettature, infaticabilmente votata alla ricerca di nuove e innovative forme di espressione.
E’ qui che trovano posto, ad esempio, le esperienze del romano Gruppo Uno che, forte dell’appoggio di Giulio Carlo Argan, si muove verso soluzioni diverse rispetto a quelle manzoniane o ottico-cinetiche. Pur muovendo i passi da identiche necessità. Così come l’originalissima avventura del milanese Gruppo del Cenobio, in cui militano Ugo La Pietra, Ettore Sordini, Arturo Vermi, Agostino Ferrari, Ettore Sordini e Angelo Verga.
Una storia, quella di questo gruppo riunito nell’omonima galleria di Cesare Nova e Rina Majoli, per molto tempo dimenticata eppure interessantissima. Un’esperienza, come scrisse nel 1989 Angela Vettese, che partiva da un’interpretazione della fine dell’Informale, come “una mutazione verso la riduzione all’osso del gesto, più che come reazione radicale, dando luogo ad opere costantemente in bilico tra la scoperta di un segno arcaico e primario e l’appunto di vita”.
Mossi dal comune intento di “salvare la pittura” questi artisti, scrive ancora la Vettese, erano “decisi a non seguire Manzoni sulla strada dell’azzeramento protoconcettuale”. Per loro “era urgente […] non passare dal tradizionalismo al niente di un palloncino gonfiato”. Ed è proprio da qui che inizia l’avventura di Agostino Ferrari, che dopo il debutto alla galleria Pater nel 1961, inizia a seguire quella via che lo porterà a sviluppare una vera e propria “poetica del segno”. Una storia artistica intensa che oggi, grazie anche al lavoro di gallerie intraprendenti come la Ca’ di Fra’ che lo rappresenta, trova una nuova e meritata visibilità.