Giorgio Griffa è nato nel 1936 a Torino, dove vive e lavora. Negli anni Sessanta dell’Arte Povera torinese, dopo un decennio di pratica pittorica figurativa, Griffa si avvicinò alla pittura astratta frequentando la scuola di pittura di Filippo Scroppo, anche se la sua vera formazione avvenne a contatto con gli artisti della sua generazione, che conobbe anche grazie ad Aldo Mondino e frequentando la Galleria di Gian Enzo Sperone. La sua prima personale fu organizzata dalla Galleria Martano nel 1968, ed è proprio tra il 1967 ed il 1968 che Griffa getta definitivamente le basi del suo fare pittorico, delineando un linguaggio ed una gestualità che ancora oggi caratterizzano la sua pratica artistica. Il supporto scelto – tela o carta – viene disposto su un piano, pronto ad accogliere il segno ad acrilico, tempera o acquerello, stemperati in acqua e stesi a pennello.
Giorgio lavora spesso sul pavimento, per evitare che il colore molto fluido coli verso il basso, e controllando così il segno, tracciato con il pennello o con la spugna. Man mano la tela cessa di essere legata alla realizzazione di un’immagine compiuta e diventa un luogo dove trovano spazio una traccia, una linea, i segni, i numeri. Come ha detto lo stesso Giorgio: “Mi sono reso conto che la cosa che più mi intrigava in quegli anni era il fatto che loro lavoravano sull’intelligenza della materia — ponevano cioè le basi perché fosse la materia stessa con la sua intelligenza a eseguire il lavoro — e io credevo nell’intelligenza della pittura. Mi limitavo ad appoggiare il colore sul supporto”.
Dopo la Galleria Martano, Griffa espose per la prima volta nella galleria di Gian Enzo Sperone nel 1969, cominciando a frequentare sempre più assiduamente lo spazio e gli altri artisti ad esso collegato. Oggi le gallerie che rappresentano ufficialmente Giorgio Griffa sono la Casey Kaplan Gallery di New York e la Galleria Lorcan O’Neill di Roma. L’opera che andiamo oggi ad approfondire, e per cui è stata realizzata la scheda tecnica Project Marta, è Canone aureo 894, un’opera ad acrilico su tela realizzata nel 2017.
Benedetta Bodo di Albaretto: La sua ricerca in ambito artistico inizia intorno agli anni ’60 e si concentra soprattutto su elementi astratti e segni elementari, approfonditi nel corso di otto cicli pittorici, tutti caratterizzati da una data di inizio, ma nessuno da una data di fine, perché convivono e non sono conclusi. Segni primari, Connessioni, Frammenti, Segno e campo, Tre linee con arabesco, Numerazioni, Alter ego, Sezione aurea. Vuole raccontarmi il suo percorso artistico?
Giorgio Griffa: «Sono dei gruppi di lavori con certi temi, non è che ci sia un criterio evolutivo come c’è stato dal passaggio dal figurativo all’astratto, non c’è nulla che ricordi l’albero di Mondrian, non c’è nulla di simile. Sono diversi cicli di lavoro in relazione a diversi temi e hanno tutti più o meno le stesse caratteristiche. Ora sto lavorando sul ciclo della Sezione Aurea, uno dei percorsi di conoscenza più antichi. In generale sono arrivato a produrre questi cicli pittorici senza considerare che l’oggetto della mia ricerca debba essere la forma, per quanto mi riguarda si tratta di un percorso di conoscenza in cui la forma è solo il risultato».
B.B.: I materiali scelti – colori acrilici su tela di iuta, canapa, cotone e lino – la interessano di per sé o sono subordinati alla realizzazione dell’idea?
G. G.: «I materiali utilizzati fondamentalmente sono semplici e tradizionali, si tratta soprattutto di tela e carta, trattandole come grosse categorie. Ci sono carte e tele diverse, uso ad esempio la carta d’acquerello, che è una carta classica, spessa, con la quale lavoro da molto tempo. Ogni tanto ho usato la carta da spolvero, che è una cosa un po’ differente, oltre che carta da disegno e cartoncino. Per quanto riguarda le tele una volta c’erano questi negozi che vendevano tele di ogni genere, poi hanno cominciato a chiudere i negozi e allora bisognava andare direttamente dal fornitore, prima a Poirino, dopo a Chieri e via dicendo. I tipi di tessuto sono poi tre o quattro: la tela più leggera, la pattina, le tele più spesse con grammature che hanno un assorbimento del colore completamente diverso, come magnum o la bandera. Ho usato tele molto sottili come le tarlatane, una specie di garza, il tulle per le ballerine, il primo lavoro su quella tela è stato Dioniso, realizzato negli anni Ottanta. Oggi è cambiato il mercato ed è cambiata anche la fibra, nel senso che nel passato c’erano anche tele di juta, c’era anche più canapa, adesso è tutto cotone, quasi tutto, anche quelle che chiamiamo le canapine, le tele che anche i restauratori spesso usano come tele da restauro. Per quanto riguarda i colori, dal 1968 uso solo più tempere acriliche oppure tempere normali o acquarelli, solo colori ad acqua, non uso più il colore ad olio. Come marche per l’acquarello preferisco Winsor & Newton e i Rembrandt, e per gli acrilici utilizzo i gli Heavy body della Liquitex».
B.B.: Che tipo di imballaggio prevede per le sue opere?
G. G.: «Sto molto attento alla prima piegatura della tela, la prima piegatura deve essere sempre orizzontale, perché fosse verticale quelle orizzontali risulterebbero una indentro e una infuori e finirebbero per creare giochi di luce che renderebbero più difficile la lettura. Adesso le piego con questo sistema, la prima piegatura orizzontale e, se richiedono più piegature, le prime piegature sono sempre orizzontali e dopo verticali. Le piego e non le arrotolo perché cerco di rispettare di ogni elemento del lavoro la sua identità, e le stoffe in casa o nei negozi, generalmente da tutte le parti, si tengono piegate. Le tengo piegate per quello, la pittura è molto elastica e quindi supporta anche di stare 30 anni piegata senza screpolarsi».
B.B.: Cosa dovremmo preoccuparci di mantenere inalterato nel tempo delle sue opere? Il colore, l’aspetto? Per alcuni artisti il fatto che il passaggio del tempo provochi uno sbiadimento, chiamiamola un’attenuazione del colore, non è un problema, per altri invece la brillantezza è fondamentale.
G. G.: «Direi che nel mio lavoro ho sempre davanti agli occhi quello che è stata la mia esperienza da ragazzo, e cioè l’esperienza dell’affresco. Siccome l’affresco lo vediamo in generale con il peso del tempo, un po’ patinato, il fatto che il mio lavoro acquisti una patina legata al tempo che passa non mi disturba affatto, anzi direi che è essenziale. Ci sono stati dei lavori agli inizi in cui addirittura cercavo delle tele acide che poi osservavo per un anno, due, tre anni per vedere cosa capitava, perché quello che mi interessa è l’intelligenza della materia che continua a lavorare, che non si ferma. Alcuni vecchi lavori di quel periodo si sono macerati perché li ho lasciati macerare io. Quindi il fatto che un domani le tinte non siano più brillantissime non mi disturba, a mio parere quello che è fondamentale è che l’opera continui a vivere nel tempo con la sua vita, il suo movimento e morte».