A New York negli anni ’30 il gallerista dei surrealisti Julien Levy, si chiedeva come commercializzare gli esperimenti filmici dei suoi artisti, pensava di venderli in edizione limitata per valorizzare il cinema non solo come una narrazione mutuata dalla letteratura, ma come un linguaggio artistico vicino all’immagine pittorica ed alla fotografia. Levy nelle sue memorie scriveva: “Film concepiti da pittori importanti come Duchamp, Léger, o Dalì dovrebbero avere lo stesso valore di una tela dipinta dalla loro mano”.
Anche se i primi esperimenti video dei Futuristi, dei Surrealisti e di quasi tutte le altre altre avanguardie del ‘900 ne hanno precorso i tempi, la video arte è un fenomeno artistico che si ufficializza verso la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70, negli anni ’90 è un fenomeno di massa grazie alle tecnologie digitali diventando di fatto uno dei progenitori dell’arte digitale. Tecnica e creatività, arte e tecnica sono sempre un binomio vincente.
In Italia grazie alle intuizioni di alcuni critici e galleristi si formano alcuni video artisti che hanno segnato la storia della video arte, soprattutto a Venezia nella Galleria del Cavallino diretta da Paolo e Gabriella Cardazzo dal 1972 al 1979 e nel Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, diretto prima da Lola Bonora poi da Carlo Ansaloni fra il 1972 ed 1994. In queste realtà operavano fra gli altri Bill Viola, Marina Abramovich e Fabrizio Plessi.
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Oggi i festival e le iniziative legate alla video arte ed all’arte digitale si moltiplicano a livello esponenziale, senza che ci sia però una vera e propria cultura orizzontale, in grado di fornire i minimi e necessari strumenti per la comprensione di questo fenomeno culturale così fortemente legato alla contemporaneità. Infatti spesso il dibattito è ancora oggi tristemente fermo sull’oggetto artistico e sul “problema” della sua riproducibilità.
Certo sono molti e molto complessi i problemi legati alla commercializzazione ed all’archiviazione delle opere di video arte e di arte digitale, essi inibiscono lo sviluppo del collezionismo digitale sia pubblico che privato, ciononostante negli ultimi anni si è delineata una tendenza molto evidente, i collezionisti soprattutto quelli più raffinati ed esigenti e le fondazioni più importanti, sono sempre più interessati al fenomeno dell’arte digitale, hanno iniziato ad acquistare opere digitali con corrette procedure giuridiche aggiudicandosi così non solo i diritti di sfruttamento, ma anche la possibilità di creare nuovi master originali su nuovi supporti.
In breve tempo i musei d’arte contemporanea più importanti del mondo, hanno iniziato a rivolgersi a questi collezionisti privati per dotarsi di opere certificate da poter esporre nelle loro sale più prestigiose ed innovative. Risulta evidente come l’economia prodotta dal collezionismo illuminato, l’arcaico mecenate, è fondamentale per non perdere i primi decenni di giovane e fertile creatività digitale.
L’arte digitale si sta ritagliando un suo spazio privilegiato fra i collezionisti, anche grazie al potente impatto scenico dai forti significati simbolici innovativi, ma la cosa che paradossalmente più ne limita la diffusione, è la sua natura immateriale e la facilità con cui può essere riprodotta, queste peculiarità generano una forte diffidenza dei collezionisti abituati all’oggetto come “feticcio” che appartengono storicamente alla scultura, pittura, disegno e fino ad una certa epoca anche alla fotografia. Per l’arte digitale dobbiamo parlare di diritti d’autore e di diritti di sfruttamento dell’opera d’arte digitale, serve una solida base di contratti giuridici e certificazioni digitali dei files simili alla blockchain.
Un approfondito studio riguardo le problemati che legate al collezionismo ed alla conservazione dell’arte contemporanea, è stato condotto fin dal 1995 dall’ente olandese SBMK. Il loro obiettivo è quello di sviluppare buone pratiche di cui tutte le parti interessate possano beneficiare, tali parti sono: artisti, gestori di collezioni, curatori e conservatori con cui collaborano e discutono delle varie problematiche sul campo sulle questioni sia tecniche che etiche.
Per sfatare un mito negativo diciamo che non è vero che l’arte digitale non ha un corpo, può essere naturalmente veicolata nel sistema della comunicazione di massa, oppure esposta in relazione con spazi enormi. Le sue applicazioni sono notevoli, si presta ad installazioni che interagiscono con gli ambienti e con la presenza umana negli spazi interattivi o sensibili come amava chiamarli Paolo Rosa di Studio Azzurro.
Nuove frontiere e nuovi mondi si aprono continuamente grazie alle implementazioni tecnologiche come la realtà aumentata e la realtà virtuale, ma il minimo comun denominatore rimane sempre il rapporto fra le possibilità espressive degli strumenti di comunicazione e l’animo umano. Gli artisti digitali dispongono di un’ampia gamma di tecniche per esprimere creativamente loro stessi, la rivoluzione digitale ha modificato il processo di creazione delle immagini e la loro diffusione.
Non più le tele o i pigmenti ma nuovi hardware e software, nuovi algoritmi dettano il passo dei continui cambiamenti. I processi di immagine generati con queste attrezzature si presentano su un nuovo modello di mercato non più basato sulla unicità e non riproducibilità dell’opera, bensì sula sua dematerializzazione.
Si tratta di un consumo ubiquo, interattivo, spettacolare, immersivo, personalizzato, oppure collettivo, condiviso e gratuito come ha dimostrato la GIF-animatic della canadese Lorna Mills (Transfer Gallery) esposta per tutto il mese di marzo su 45 mega schermi di Times Square, solo chi possiede i file originali e tutte le necessarie certificazioni riguardo l’autenticità di quell’opera può dire di esserne in possesso per poterla replicare fra qualche secolo.
Le gallerie d’arte più attente e più sperimentali si sono accorte da tempo dell’arte digitale, ma si trovano di fronte un mercato ancora poco preparato ad accogliere le sfide sempre più estreme dell’arte contemporanea, in parte ciò è dovuto alla mancanza di conoscenza della materia giuridica che deve necessariamente regolare questa particolare orma artistica, in parte è oggettivamente difficile dare un valore a qualcosa che spesso per definizione è effimero, smaterializzato, infinitamente replicabile e spesso volutamente e liberamente manipolabile.
Proprio per questo se vogliamo salvaguardare gli ultimi vent’anni di produzione artistica digitale va fatto un lavoro di educazione al collezionismo, ne sa certamente qualche cosa Barbara London curatrice della video-collezione del MoMA di New York, oppure i collezionisti Julia Stoschek di Düsseldorf e Marc e Josée Gensollen di Marsiglia che dettano le linee guida del mercato europeo.
La generazione di artisti emersa negli anni 90, gode del lavoro pionieristico svolto dalla generazione precedente che ha creato una storia e un’estetica del mezzo. La nascita di internet e l’affermazione delle edizioni per far fronte alla moltiplicazione dei metodi di distribuzione e riproducibilità dei video (per cui le edizioni passano da 20 a meno di dieci) favoriscono il mercato, infatti contrariamente a quanto si possa pensare la facilità di riproduzione ne rende difficoltosa l’autenticazione.
Inoltre, si afferma la pratica di vendere non solo il video in sé, ma anche fotografie e altre opere realizzate con mezzi espressivi più tradizionali legate al video. Così si arriva, per esempio, ai 387.000 $ per “Cremaster 4” di Matthew Barney, venduto da Christie’s nel 1999 con alcuni costumi ed oggetti di scena.
Siamo ovviamente solo all’inizio di questa grande rivoluzione che sta modificando anche il mercato delle Casa d’asta. Se la prima digital art auction è avvenuta la sera dell’11 ottobre del 2013 ora alcuni operatori si muovono per promuoverla, cercando di tutelare gli artisti è nato Paddle 8 un’iniziativa che vede coinvolte la Casa d’aste Phillips di Londra e Tumblr che hanno lanciato Paddles on per promuovere l’arte digitale con la direzione artistica di Lindsay Howard, giovane curatrice che sta mettendo a fuoco come Internet stia generando un nuovo modello di mercato nonostante la “digital art is shared, liked, retweeted and embedded free-of-charge all over the web”. Il collezionismo digitale non è solo il futuro, è anche il presente.