Ancora per qualche giorno, alla Fondazione Merz di Torino, è possibile visitare la mostra Society, you’re a crazy breed, un progetto inedito degli artisti Botto&Bruno a cura di Beatrice Merz e Maria Centonze. La mostra è una sorta di grido per riflettere sul futuro delle nostre città e sulla follia contemporanea, che tende ad azzerare la memoria per costruire su macerie un presente senza storia. Il visitatore viene coinvolto a 360° dalla grandezza del loro progetto espositivo: anche chi non conosce già il lavoro dell’ormai storico binomio torinese, guardando le immagini reperibili in rete, si aspetterà molto ma la visione diretta delle opere lascerà il visitatore davvero senza parole; impossibile arrivare a immaginarsi così tanto. Passeggiando all’interno di questa enorme installazione si viene letteralmente rapiti. L’opera è un continuo rimando di emozioni, sensazioni, ricordi, che coinvolge non solo la vista ma tutti gli altri sensi.
In ogni scorcio, in ogni “fotogramma” si può rivivere un attimo della nostra vita, della nostra infanzia e della nostra essenza: si viene catapultati in un passato in cui, ancora bambini, si poteva andare a giocare fuori da soli con gli amici, quando il rimbalzare di un pallone sull’asfalto richiamava in strada decine di coetanei pronti a correre fino a sera per poi tornare a casa con le ginocchia scorticate e nere come il carbone. Grazie alle loro costruzioni, negli spazi di Botto&Bruno si torna a fantasticare di giochi e avventure; di quando si giocava con quello che si trovava, ci si arrampicava sugli alberi e si esploravano ruderi, in questo caso metropolitani. Di fronte a un ingresso sbarrato, la prima cosa che si pensava era quello di trovare un’entrata; tutti gli edifici devono avere un ingresso. Nelle immagini in mostra a parete, si cerca di trovare il pertugio, l’ingresso sbarrato da oltrepassare per entrare in quel mondo e vivere quell’avventura. Anche se molti visitatori sono stati in quei luoghi prima di noi, ci piace pensare di essere i primi, di essere lì soli con la nostra voglia di avventura e le nostre paure, che gli Artisti hanno saputo far emergere amplificando le nostre emozioni. Ci si immedesima talmente tanto in quello spettacolo che si arriva quasi a temere di potersi scorticare, di toccare inavvertitamente le piante di ortiche, di venire punto dai fastidiosi insetti o di potersi tagliare con i vetri che forse proprio chi prima di noi ha provato ad entrare, ha frantumato.
Ci si trova inconsciamente a farsi coraggio con chi ci sta vicino, colti dal timore che un roditore possa improvvisamente uscire dalla scena e farsi incontro a noi. Quello che emoziona dell’installazione non è quello che vediamo ma ciò che ci porta a immaginare; i corridoi, le stanze stanze che devono trovarsi all’interno di quelle costruzioni, con i pericoli che nascondono o magari per la presenza di qualcuno che vi abita per via della crisi. Ecco quello che forse è il messaggio più forte che viene dalla mostra: il percepire che non siamo più soli, che con molta probabilità non lo siamo mai stati in questa nostra visita. Il sogno è finito; addio ricordi d’infanzia, e ce ne andiamo con la convinzione che purtroppo c’è sempre qualcuno che non ama conservare e recuperare ma preferisce distruggere.