Lo scorso agosto, mi sono recato a Parigi attratto dalla grande mostra che la fondazione Louis Vuitton ha dedicato a David Hockney. Conclusa la visita e uscito dagli splendidi spazi dell’architettura di Frank Gehry, mi girava per la testa un pensiero fisso: questa è la mostra più bella che ho visto!
Appena mi sono ripreso e ho fatto due passi verso gli alberi che costeggiano la strada asfaltata nel Bois de Boulogne, mi sono detto “no non è possibile”; ho visto tante mostre bellissime e la mente è andata subito all’incipit di un romanzo che lessi da ragazzo. Si trattava di “Alta fedeltà” di Nick Hornby. Quell’incipit mi colpì e mi affascina ancora. Hornby riteneva che per gli eventi, positivi e negativi, fortemente impattanti nelle nostre esperienze culturali e di vita, non era possibile stabilire primati ma occorreva almeno comporre una cinquina: “Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico…”
Ha ragione Nick Hornby: la più bella mostra della vita non può essere una!
Per questo dirò che la mostra parigina di David Hackney entra di diritto nella cinquina di chi scrive.

Essere entrati alla Fondation Louis Vuitton nei mesi scorsi significava aver vissuto lo scacco estetico di un’intensa e profonda esperienza culturale ed esistenziale. Con oltre quattrocento opere dal 1955 al 2025, la mostra Do remember they can’t cancel the Spring ci ha mostrato un David Hockney in continuo, mirabile ed incessante progredire creativo. È stato lui stesso a guidare il percorso, scegliendo di cominciare non dalle opere storiche ma dagli ultimi venticinque anni, quasi a voler dire che la pittura è un presente sempre vivo, una stagione che torna e non può essere arrestata, conclusa.
Il viaggio iniziava dalle opere note: le piscine californiane, i doppi ritratti, gli interni sospesi. A Bigger Splash (1967) un’icona pop che, al di là della sua patina popolare, rivela un dialogo intenso e profondo con la storia dell’arte: le tre campiture nette richiamano la pittura americana dei fields cromatici, mentre le palme immobili ricordano i mosaici bizantini di Ravenna, silenziose e senza ombra. È un salto storico che mette in contrasto evocativo il caos dell’acqua con la sospensione senza tempo delle palme.
Poco più avanti, Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) (1972) mostrava l’altra grande forza di Hockney: saper reinterpretare il Rinascimento. Qui il riferimento è a Piero della Francesca, con l’architettura che si fonde al paesaggio creando uno spazio atemporale imperturbato. La barriera della piscina diventa una linea che mette in contatto il primo piano con il lontano orizzonte, mentre il silenzioso colloquio tra i due personaggi sospende la tensione drammatica, come negli sguardi assorti dei giocatori di carte di Cézanne.
Accanto a queste opere, altre rivelavano la capacità dell’artista di assorbire e reinterpretare stili diversi. The Room, Tarzana (1967) è un omaggio alla drammatica sospensione narrativa di Edward Hopper; Berlin: A Souvenir (1962) ricordava l’espressionismo di George Grosz ma con slancio autonomo e autorevole; Christopher Isherwood and Don Bachardy (1968) unisce il minimalismo di Sol Lewitt alla pennellata imperfetta, cara alla tradizione europea, con figure illuminate come da un pensiero che arriva da dietro.
Il percorso si apriva poi ai paesaggi che dagli anni Ottanta diventano protagonisti. L’immenso Bigger Trees near Warter (2007), prestato dalla Tate, sembra un ricordo di “La Chiesa di Auvers-sur-Oise” di Van Gogh, con l’albero storto che sostituisce la chiesa al crocevia delle strade. Nichols Canyon (1980) trasfigura i colli californiani con i colori della pittura francese di fine Ottocento.
May Blossom on the Roman Road (2009) è un’esplosione di primavera, mentre The Arrival of Spring (2013) vibra di cromatismi che evocano Kirchner. Il nostro ama celebrare la natura con una monumentalità, anche cromatica, già evocata da Monet fin dalla copertina del catalogo della mostra.

Ma Hockney, il progressista, non è solo memoria: è anche sperimentazione. Nelle gallerie dedicate alla Normandia, la serie digitale 220 for 2020, realizzata interamente su iPad, diventava un diario delle stagioni che rinnovava il gesto impressionista. In opere come 25th June 2022, Looking at the Flowers, l’artista moltiplica i livelli di realtà: vasi veri e vasi dipinti, un Hockney che fuma e uno che osserva, come in un gioco filosofico à la Sartre. Qui la tecnologia non è mai pittura rappresentata, ma un modo diverso di tornare alla pittura autentica. L’allestimento del terzo piano, con luci calibrate, lo sottolineava con forza: persino l’intelligenza artificiale, suggerisce Hockney, non cancella la pittura, ma la rilancia in un universo tanto affascinante quanto temuto
Nella stessa direzione vanno le opere recentissime, come JP and Little Tess (2023), dove non era tanto la figura a colpire quanto le cornici che riecheggiavano le geometrie eterne del Battistero di Firenze, evocando una metafisica che supera il tempo. E ancora i dipinti londinesi del 2023-24, ispirati a Munch e Blake, enigmatici e spirituali, capaci di intrecciare cosmologia, storia, interiorità e composto smarrimento.
La mostra si chiudeva in modo circolare, riportando al punto di partenza. Una scritta accoglieva il visitatore: “HOCKNEY DIPINGE LA SCENA. Abbiamo bisogno di più opera. È più grande della vita”. Forte è il legame con Puccini che Hockney scoprì da bambino a Bradford, assistendo ad una replica della Bohème. Come Puccini seppe inscrivere nella forma dell’opera tutta la musica del suo tempo, Hockney ha saputo includere nella pittura tutte le forme contemporanee, conservando l’unità formale e lo spirito di assoluto delle grandi opere classiche.
Le sue scenografie – dal Rake’s Progress di Stravinsky a oggi – si fondevano in Hockney Paints the Stage, installazione musicale e visiva che chiudeva la mostra.
David Hockney, con il suo dinamismo progressivo, mi ha ricordato che la pittura sarà sempre attuale, come la primavera: si rinnova, esplode, sfiorisce, pronta a inesorabilmente ritornare dopo ogni inverno, vincendo le tempeste e aprendoci alla luce rigeneratrice.