Chi l’ha detto che un quadrato non possa danzare, o che una linea non possa parlare? Entrando da LOOM Gallery, a Milano, fino al prossimo 11 gennaio 2020 le geometrie e i segni di Annamaria Gelmi saranno lì a dirci non solo che tutto ciò è possibile, ma che anche noi possiamo ballare e chiacchierare liberamente insieme a loro.
La mostra nasce dall’interesse del gallerista che, nel passare in rassegna quei linguaggi che hanno caratterizzato il panorama europeo degli anni ’70, ha rivisto nella ricerca dell’artista lo spirito dell’epoca proiettato verso il futuro.
Gli anni ’70 di Annamaria Gelmi corrispondono infatti a un impegno per i diritti civili, dell’uomo e della donna, portato avanti non con l’intento di denunciarne la privazione, ma di attuarne una riorganizzazione mettendo in gioco innanzitutto sé stessa, come persona e come artista, a partire da un linguaggio dal rinnovato rigore che, anziché imporsi, concede a chi guarda un approccio matematicamente coerente, ma allo stesso tempo caratterizzato dalla libertà rivendicata.
Infatti, se ogni tratto racchiude le motivazioni alla base del gesto che lo ha generato, ogni opera diventa un tracciato emozionale dove possiamo leggere le tante stratificazioni del pensiero e degli ideali dell’artista, le gioie, le amarezze, le aspirazioni e le contraddizioni della vita di donna, di moglie, di madre, in un flusso visivo di coscienza in cui ognuno può sovrascrivere la propria storia alle trame assimilate.
Con una successione di circa 20 opere, realizzate appunto negli anni ’70 e con un ciclo di collage del 2014, il cuore di questa mostra gira intorno al legame con il caro Spartaco del titolo, “filosofo, sociologo, poeta, letterato, amato marito”, mostrando l’anima dell’artista là dove sembra essere sopraffatta dalla pura razionalità.
Quadrati, cerchi, rettangoli e triangoli, tutte le geometrie e i segni tracciati da Annamaria Gelmi su fogli di carta e lastre di acetato, o sagomati in blocchi di plexiglas, si ritrovano sospesi in uno spazio tanto onirico quanto rigoroso, composto di matematiche sequenze e altrettanto ricco di improvvisazioni, dove i tratti e le forme rispondo ed evadono allo stesso tempo la logica costruttiva, sperimentando ritmi visivi che si accorano alle vicende del reale.
Ecco che lavori costruiti con riga e compasso, misure e formule, permettono a ciascun osservatore di stupirsi, ritrovando la soggettività del proprio punto di vista in un insieme asettico di regole che aspettano solo di essere vissute.
Vediamo esposte alcune sculture che, realizzate a distanza di pochissimi anni, mostrano esiti molto diversi nella concezione dello spazio, dei pieni e dei vuoti, rivelando una presa di posizione decisiva per tutta la carriera.
Elementi componibili (1976) si distingue per una certa libertà di intervento manuale nell’assemblare i moduli di plexiglas trasparente, sagomati a partire da forme regolari, a comporre diversi equilibri in cui la figura che conferisce il ritmo all’opera è costituita dallo spazio lasciato vuoto, non occupato dalla materia.
In opere come Sequenza triangolare (1978), invece, sono le forme piene poste in successione a generare un ritmo che si svolge con contiguità nello spazio fisico dell’osservatore, invadendolo e modificandolo, cercando di attivare un dialogo diretto e coinvolgente che non si limiti all’opera ma si estenda a tutto l’ambiente, influenzando anche il nostro comportamento.
Parallelamente, anche la sperimentazione con il disegno tecnico mira a un risultato plastico, pur nella bidimensionalità, tenendo viva la necessità di continuare a costruire nuove possibilità di interazione nello spazio grazie alle potenzialità dei supporti.
Tanti possibili schemi di movimento delle geometrie primarie, a volte ridotte a linee, fluttuano sullo sfondo indefinito di carte e collage colorati, testandone la carica evocativa come in Rotazione e Doppia Rotazione (1977).
Invece, grazie alla trasparenza delle lastre di acetato, che consente una fluida connessione tra i segni marcati a china e la proiezione delle rispettive ombre, Annamaria Gelmi arriva a inglobare la parete espositiva nella superficie pittorica, sfondando i canoni epidermici della grafica, come accade già in Rotazione e Struttura ambiente del 1976 e nei Ritmi-Ombre.
Lo spettatore, partecipando di questo sconfinamento sia emotivamente che fisicamente, diventa una parte sempre più attiva dell’opera, le cui valenze estetiche e relazionali mutano insieme al luogo e al punto di osservazione.
Scrutabile da diverse angolazioni, ogni costrutto plastico e progettuale amplifica la visione sulla realtà circostante e si trasforma in un’installazione dove la protagonista non è più l’opera in senso assoluto, bensì tutte le sue infinite propagazioni.
E Spartaco?
Là dove la realtà fisica e quella intangibile si tuffano l’una nell’altra, ognuno di noi incontra la propria costante nello spazio-tempo, necessaria e indispensabile presenza in tutte le forme e i gradi della coesistenza.