J’suis l’poinçonneur des Lilas / Pour Invalides, changez à Opéra
[…]
Et sous mon ciel de faïence / Je n’vois briller que les correspondances…
Così cantava Serge Gainsbourg ne Le poinçonneur des Lilas del 1958, raccontando cinicamente la storia di un povero controllore del metrò di Parigi, disperato come solo i parigini sanno essere, che come unica via di fuga dalla monotonia di una vita di buchi nei biglietti non ha che una pistola con cui farsi un buco in testa.
L’aspetto del metrò parigino non è molto cambiato dagli anni Cinquanta. Le pareti di tante stazioni sono ancora un ciel de carreaux de faïence, sono, cioè, ancora rivestite dalle tipiche mattonelle bianche di ceramica.
Il termine faïence, in francese, indica per antonomasia la ceramica, adattamento francofono del nome italiano di Faenza. Così anche in spagnolo, in tedesco e in inglese, evidente retaggio del monopolio continentale raggiunto in epoca rinascimentale dall’industria ceramica della cittadina romagnola.
Faenza è bagnata dalle acque del fiume Lamone che, con la piena, porta a valle dall’Appennino grandi quantità di sabbia, limo e argilla. Materia prima a buon mercato che gli artigiani faentini, dal Mille in poi, imparano a lavorare con maestria unica.
Vasellame decorato con predominanza di smalto bianco, i cosiddetti bianchi di Faenza, sono il pezzo forte dell’artigianato locale, ben rappresentato oggi al Museo Internazionale della Ceramica, ricco excursus nella storia dell’arte della maiolica.
Ma quella della ceramica è un’arte policentrica, come la produzione della seta o la lavorazione delle pietre preziose. La mappatura dei maggiori centri di produzione europei, dall’epoca medievale fino all’alba della Rivoluzione industriale, rivelerebbe connessioni inaspettate, anche molto lontane, da Faenza a Limoges, passando per Villarreal. Nonostante le divisioni, l’Europa ha sempre respirato la stessa aria.
Seguendo la costa adriatica, dalla Romagna si entra nelle Marche. A Urbania visse Cipriano Piccolpasso, architetto e geniere militare, nonché maestro ceramista, autore del fondamentale trattato cinquecentesco sull’arte del vasajo, contenente “tutti i secreti di essa cosa che persino al dì d’oggi è stata sempre tenuta nascosta”.
Segreti appresi per tradizione famigliare e muovendosi tra le industrie di Romagna, Montefeltro e di tutta la Pianura Padana. Una tradizione sapienziale, sua e di tante altre botteghe della costa gallo-picena, che sarà celebrata dalle iniziative per Pesaro capitale italiana della cultura 2024.
Bisogna ricordare che, parlando di tecnica, sino al Rinascimento una divisione netta tra cosiddette arti minori e arti maggiori non sussiste. In epoca medievale tutto ciò che non sia arte liberale, cioè dell’intelletto e della parola, si pone in rapporti gerarchici tutt’altro che scontati: Roberto Longhi ricorda come, ancora nel Duecento, la pittura cercasse di imitare, nello sfondo dorato e negli intagli del legno, la glittica e la lavorazione dei metalli.
Dal Rinascimento in poi le regole cambiano, e le arti che non siano pittura, scultura o architettura sono ridotte al rango di minori. Il testo del Vasari non a caso si intitola vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori: chi non rientra in nessuna delle tre categorie è inserito con riserva.
Scrivendo, ad esempio, della vita di Luca della Robbia, inventore delle celebri robbiane in terracotta invetriata e fondatore di una grossa bottega di produzione artigianale, Vasari si giustifica ricordando che, comunque, Luca si era formato alla scultura del marmo e che “dicono molti che Luca della Robia era concorrente di Donatello e tenuto di grande ingegno ne’ tempi suoi”.
Ceramica, glittica, ebanisteria, tappezzeria, oreficeria, continueranno a svilupparsi all’ombra delle arti maggiori fino a Ottocento inoltrato, quando un nuovo sentire darà ai loro artefici dignità e importanza: è eloquente l’applicazione con cui un artista come William Morris studia i motivi vegetali per le sue splendide maioliche, sete, tappezzerie e carte da parati.
Nel Novecento, poi, i dogmi riguardo ai materiali artistici vengono meno. Si definisce scultura quella praticata da Naum Gabo con la celluloide, pittura quella di Pollock con gli smalti industriali Duco. Non sorprende, insomma, che una distinzione tra arte minore e maggiore perda di senso, almeno per la gran parte di artisti, mercanti e collezionisti.
La ceramica ha attraversato l’arte del Novecento. È risaputo che Picasso ne abbia fatto un uso esteso e pienamente artistico, dopo aver visto a Parigi quelle fatte qualche anno prima da Paul Gauguin. Le ceramiche di Lucio Fontana sono forse la sua cosa più bella dal punto di vista tecnico. Quelle giovanili di Fausto Melotti sono attualmente in mostra alla Fondazione Ragghianti di Lucca. Di recente, stanno avendo molto successo le ceramiche iperrealiste del duo imolese Bertozzi e Casoni, oggetti di vita quotidiana, usati e ammassati à la tableaux-pièges di Daniel Spoerri.
Le rassegne di arte contemporanea sono invase da tessuti, smalti, cammei, legni intagliati, porcellane, ori cesellati. L’arte minore ha la sua rivalsa su quella maggiore, insomma.
Qualche anno fa, ipotizzando una ristrutturazione del Campo Nou di Barcellona, l’architetto Norman Foster disegnò una sorta di guscio che chiudesse campo e spalti come in un vaso, ricoprendolo di pannelli rossi, gialli e blu, i colori della Catalogna. Un omaggio al trencadís, il frammento ceramico che decora e rende uniche le superfici ricurve e sensuali della Barcellona modernista di Antoni Gaudì, Lluís Domènech i Montaner e Josep Maria Jujol.
I candidi carreaux de faïence del metrò di Parigi sono un simbolo della città per i turisti. Ma la loro funzione originaria era di rendere più luminose le stazioni, perché y a pas d’soleil sous la terre, ricorda il poinçonneur des Lilas.