Fino al 15 gennaio al Binario 1 delle Ogr di Torino è possibile visitare la mostra di Arthur Jafa, (1960, Tupelo, Mississippi). Curata da Claude Adjil e Judith Waldmann con Hans Ulrich Obrist e realizzata in collaborazione con Serpentine di Londra, la mostra si presenta come un evento di levatura internazionale.
Il titolo è apparentemente complesso, ma in realtà cita i nomi di tre grandi chitarristi della tradizione black americana: Arthur Rahmes, Pete Cosey (qualcuno lo ricorderà con Miles Davis) e Ronny Drayton. RAHMESJAFACOSEYJAFADRAYTON, così suona il titolo alternando i nomi dei chitarristi a quello dell’artista, un po’ come un riff ben eseguito, ed è proprio al mondo della musica che tutta la mostra s’ispira e si configura.
Il percorso espositivo è curato nei dettagli per coinvolgere pienamente il visitatore. Dopo aver brevemente camminato lungo un tratto di spazio espositivo buio, in cui solo riecheggiamo le vibrazioni dei bassi musicali, siamo dapprima introdotti in una sorta di percorso obbligato, che si snoda tra le immagini di musicisti black americani risalenti soprattutto agli anni ottanta del ventesimo secolo.
Poi, improvvisamente ci troviamo catapultati in un’installazione immersiva di grandissimo effetto. Nella sala buia, avvolti dal suono coinvolgente di chitarre sapienti, possiamo sedere su una sorta di tappeto inclinato. Davanti a noi si apre l’immagine di un tramonto, sotto il quale si muove indomito e sinuoso un mare di lava incandescente, con effetto ipnotico, intensissimo e accattivante. Dopo poco tempo ci accorgiamo che la luce del sole è però ferma, non subisce variazioni secondo lo scorrere del tempo, come se il cielo fosse prigioniero di un eterno occaso.
La durata complessiva del video è di ben 85 minuti, durante i quali i visitatori sono apertamente sollecitati, parafrasando William Blake, a tenere le porte della percezione ben spalancate. Viene in mente una frase di Ezio Bosso, il musicista torinese recentemente scomparso, che certo apparteneva a un altro universo musicale rispetto alla black music, che diceva che “il tempo è un pozzo nero e la magia della musica che abbiamo in mano noi musicisti è quella di stare nel tempo, dilatare il tempo e rubare il tempo”.
Tutto si gioca, nella musica, in questo ritmo trascinante, simile a un viaggio in cui siamo condotti e non sappiamo dove. Perciò nonostante le differenze di estrazione culturale e di background, la frase di Bosso si adatta bene a descrivere l’opera di Jafa in modo plastico. Il mare nero di lava, qui, davvero simile a quella buia di un pozzo di cui non si vede il fondo, si muove seguendo un ritmo sincopato, con un effetto sinestetico trascinante sul pubblico, evocando il tempo musicale, il suo dilatarsi o contrarsi secondo ritmiche armonie.
Da sempre il lavoro di Jafa ha al suo centro la ricerca sulla blackness esplorata attraverso un utilizzo consapevole e variegato di ogni tipo di media e modalità espressive più all’avanguardia. Improntando il suo lavoro al confronto con la musica, nel tentativo riuscito di rendere conto della doppia anima, insieme potente e alienante di un certo mondo e di un certo universo musicale black, Jafa ha realizzato lavori sempre intensi, che sono stati esposti nelle più prestigiose sedi internazionali.
L’opera video The white album, dal forte impatto polemico, gli è valsa nel 2019 il Leone d’oro alla Biennale di Venezia, May you live in interesting times.
Il lavoro visitabile alle Ogr, in particolare, rende il senso della musica, l’essere trasportati in una dimensione altra, quasi che le sensazioni auditive e immaginative da questa prodotte si facessero fisicamente tangibili e onnicomprensive. Il sentimento dominante è sorpendentemente il sentirsi tirati in due direzioni opposte contemporaneamente: da un lato essendo irresistibilmente attratti, dall’altro quasi intimoriti da una potenza sublime in senso kantiano, che ci trascina e nel contempo sembra poterci sopraffare.