Ci sono eventi nella storia dell’arte che segnano svolte impreviste, contribuendo a cambiare il corso della narrazione. Una di queste è certamente la collettiva Artists in Exile, allestita dal 3 al 28 marzo 1942 presso la Galleria Pierre Matisse, nel Fuller Building al 41 East della 57th Strada a New York.
In mostra – come scrive James Thrall Soby nel suo testo in catalogo – “quattordici artisti che sono venuti in America per vivere e lavorare. [Sono] un gruppo disparato, ma appartengono tutti alla rara compagnia di coloro che hanno portato originalità e autorevolezza all’arte del loro periodo”.
I loro nomi sono: Roberto Matta, Ossip Zadkine, Yves Tanguy, Max Ernst, Marc Chagall, Fernand Léger, André Breton, Piet Mondrian, André Masson, Amédéé Ozenfant, Jacques Lipchitz, Pavel Tchelitchew, Kurt Selingmann e Eugene Berman. Erano arrivati da pochi mesi negli Stati Uniti per sfuggire alle atrocità della seconda guerra mondiale e, in quella occasione, esposero opere eseguite o completate in quel primo periodo americano.
Voluta dal più giovane dei figli del pittore francese Henri Matisse, Pierre, la cui galleria era specializzata negli artisti moderni e contemporanei americani e europei e che dal 1945 in poi darà un contributo fondamentale alla diffusione del Surrealismo negli Stati Uniti, Artists in Exile non fu una semplice esposizione, ma un evento che segnò il mondo dell’arte in modo indelebile, aviando un processo di profondo cambiamento nell’arte americana.
Una mostra-manifesto, oltre che un evento inevitabilmente commerciale, che si propose alla scena newyorchese come il primo “atto di guerra” americano contro un Nazismo che, tra le altre cose, aveva bollato come Arte Degenerata le avanguardie artistiche a cui i quattordici appartenevano – Dada, Surrealismo, Cubismo e De Stijl.
Avanguardie che, dopo la presa di Parigi, avvenuta il 14 giugno del 1940, non avevano più alcun rifugio nella vecchia Europa dilaniata dal conflitto, incrementando così il flusso di esuli che già dal 1933 avevano preso la via dell’America. Una diaspora che, tra uomini di cultura, artisti e docenti universitari, porterà sull’altra sponda dell’Atlantico, tra il 1933 e il 1941, circa 25.000 persone.
La mostra del Fuller Building diviene, così, fin da subito, il simbolo dell’ospitalità del mondo culturale americano nei confronti di quello europeo in fuga, ma anche – come scriverà Rosamund Frost sulle pagine di ART News il 15 marzo 1942 –, il primo frutto di questo esilio; una mostra che metteva in scena quello che “recentemente gli artisti emigrati avevano creato in America”. Il tutto con l’obiettivo non solo di tutelare l’arte moderna europea, ma anche di perpetuarla, impiantandola nel corpo della cultura americana.
James Thrall Soby e Nicolas Calas, nei rispettivi testi in catalogo, infatti, non perdono l’occasione per annunciare la grande opportunità che questa mostra rappresenta per il loro Paese; l’opportunità per l’inizio di un nuovo movimento artistico internazionale con sede a New York. E se pensiamo a quanto gli artisti coinvolti in Artists in Exile hanno influito con le loro pratiche sulla direzione dell’arte americana… beh… non vi è dubbio che quell’occasione fu colta a pieno.
Al di là degli aspetti “umanitari”, che vedranno mercanti d’arte, mecenati, collezionisti e direttori di museo aiutare questi artisti a fuggire assieme ai familiari più stretti – esemplare, in questo, il caso di Alfred H. Barr Jr. e sua moglie, Margaret Scolari – in questa vicenda non manca, infatti, certo un pizzico di “opportunismo”.
Questo, in particolare, dopo la caduta di Parigi (1940), quando divenne chiaro che il salvataggio e l’accoglienza degli europei avrebbe potuto assicurare l’ascesa dell’America, e in particolare di New York, in una posizione di predominio culturale su scala mondiale. Anche se questa idea non fu sempre accolta positivamente da un’America, in quel momento, estremamente conservatrice.
La mostra Artists in Exile nasce, in un certo senso, anche per questo motivo; per vincere le resistenze di critici e patroni delle arti e assicurare a New York il ruolo di nuova capitale internazionale dell’arte d’avanguardia. Il recente ingresso in guerra degli Stati Uniti (16 dicembre 1941), in tutto ciò, d’altronde, offriva uno spunto importantissimo, premettendo di presentare la tutela e la “coltivazione” dell’arte moderna europea in America, condannata e perseguitata dal nemico, come un atto di patriottismo e di difesa collettiva, in nome della libertà di espressione.
La cosa curiosa – ma neanche più di tanto, se pensiamo al tipico pragmatismo americano – è che nel tentativo di presentare nel modo migliore gli artisti esposti nella Galleria Matisse, gli organizzatori della mostra Artists in Exile non si fanno troppi problemi a definirli, genericamente, appartenenti ad una non meglio precisata “Scuola di Parigi”, nonostante le differenti appartenenze a gruppi e correnti artistiche. Differenze che, nonostante gli sforzi, emergono in modo lampante dalle opere esposte.
Un elemento, questo, che non sfugge a Rosamund Frost nel già citato articolo del 1942, laddove dice: “A Parigi gli artisti erano divisi in gruppi[…]. Oggi in America tutto è cambiato. La fotografia degli artisti in esilio all’interno del catalogo mette insieme i più diversi fattori della scena artistica europea […]. Elencati in ordine alfabetico, i loro lavori adesso pendono, uno accanto all’altro, rappresentando un concentrato delle idee che oggigiorno potrebbero conquistare l’America”.
Più che un “primo frutto”, Artists in Exile appare così come un “primo seme” di quello che sarà. “In questo modo – conclude, infatti, il suo pezzo la giornalista – è mappata la pacifica invasione europea dell’America. Ogni idea illustrata è per noi nuova; ogni artista ha portato con sé in esilio un frammento di pensiero europeo. Il calare questi frammenti nella vita americana sarà il nostro prossimo compito“.
Artistis in Exile, in realtà, fu tutt’altro che un successo e pur non riuscendo nel suo intento di intaccare la coriacea resistenza statunitense alla cultura europea – vissuta come estranea e troppo complessa -, ha avuto il merito di avviare un percorso che nello stesso anno, il 1942, sarà portato avanti in modo ben più efficiente da altre due mostre: The First Papers of Surrealism, curata da Marcel Duchamp alla Reid Mansion, e la mostra inaugurale della galleria Art of This Century di Peggy Guggenheim.
Quest’ultimo, in particolare, sarà l’evento di maggior impatto per quanto riguarda il successo delle avanguardie artistiche europee negli Stati Uniti. In primo luogo per lo status di celebrità di Peggy che Eleanor Shaw, sul Washington’s Spokesman Review, “nominerà” a patrono della nuova arte per la sua capacità di svolgere in modo esemplare il “compito” di favorire la ricezione dell’arte moderna europea da parte del pubblico e dei patroni americani; imprimendo una nuova accelerazione all’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza culturale e di New York come nuova capitale dell’arte.
Ascesa che, come ho raccontato in un articolo di tanto tempo fa, pochi anni dopo verrà favorita anche dall’intervento della Central Intelligence Agency (CIA) istituita da Henry Truman i 18 settembre del 1947.