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Azzurro afgano. Il “lapislazzuli” nella storia dell’arte

del

Sembra che l’Afghanistan e il suo popolo non possano avere pace. Dopo anni di apparente calma piatta, questo paese stepposo e semidesertico si trova ancora una volta al centro delle attenzioni internazionali. Chi ha letto Kim di Rudyard Kipling, però, ha una vaga idea del perché: questa grande zolla di terra montagnosa fu il campo di battaglia sul quale si svolse, durante la seconda metà del XIX secolo, il Grande gioco, ovvero la guerra di diplomazia, spionaggio e controspionaggio con la quale l’Impero Britannico e quello Russo se ne contendevano il dominio delle risorse presenti in abbondanza. Una contesa che, cambiati gli attori in gioco, va avanti ancora oggi. Sulla pelle degli afghani, naturalmente.

Del resto, l’Afghanistan è conosciuto nel mondo per due cose, che, guarda caso, sono anche le fonti principali di sussistenza per la sua povera economia nazionale: gli sterminati campi di oppio e le preziosissime miniere. Marco Polo, durante il suo viaggio in Persia, ne visitò una in particolare, situata nella regione che egli chiama Balasciam, Badakhshan secondo la lingua pashtu: “Balasciam è una provincia che la gente adorano Malcometo, e ànno lingua per loro. […] E quivi, in un’altra montagna, ove si cava l’azurro, e è ’l migliore e ’l piú fine del mondo; e le pietre onde si fa l’azurro, è vena di terra.” (da Il Milione, capitolo 46)

Ovviamente Marco Polo sta parlando del lapislazzuli, quel fantastico minerale di un colore blu intenso con striature tra il bianco e il giallo dorato, affascinante e pregiato già dal nome, incontro non fortuito tra lingue latina e araba.

Non è un caso che sia un veneziano a raccontarci questo, perché è proprio grazie a Venezia e alla sua potenza mercantile, globalizzata ante-litteram, che le pietre azzurre dell’Afghanistan cominciarono ad approdare, negli stessi anni in cui scriveva Polo, nei mercati di mezza Europa.

Triturato e ridotto in granelli, il lapislazzuli produceva il più profondo blu che si potesse desiderare: blu oltremare, proprio perché proveniva dalle terre di là dal mare (Adriatico, naturalmente).

Cennino Cennini, che visse un secolo dopo l’esploratore veneziano, è stati uno dei primi a trascrivere, nel suo Libro, il complesso procedimento per macinare la pietra correttamente senza farla sbiadire e perderne la particolare intensità di tono.

Da questo momento, il blu oltremare entra nella tavolozza dei pittori. Con parsimonia, perché solo quelli più facoltosi o meglio pagati, visto il costo elevatissimo del quale si lamenta Albrecht Dürer in una lettera al suo mecenate Jacob Heller.

Ci vuole il pennello di un Dürer o di un artista di pari livello per guardare il manto blu della Vergine e avere la certezza che si tratti effettivamente di oltremare. I pittori minori o che comunque avevano meno fondi, doveva accontentarsi di altri pigmenti come l’azzurrite o il blu egizio. Pigmenti che comunque neanche i grandi pittori disdegnavano, utilizzando il costoso oltremare solo per le parti di panneggio in primo piano, e concludendo quelle ombreggiate con i suoi fratelli più economici.

Il blu oltremare di lapislazzuli visse il suo periodo di gloria nella pittura europea per cinquecento anni, arricchendo a dismisura i mercanti e quasi per niente i poveri minatori afghani che probabilmente non avevano neppure idea dell’utilizzo che ne veniva fatto di là dal mare.

Nel 1806, due francesi ne scoprirono la composizione chimica, alluminosilicato di sodio polisolforato. Pochi anni dopo, demolendo una fornace per la produzione della calce nel nord della Francia, venne rinvenuto un composto residuo di un colore blu intenso del tutto simile a quello del lapislazzuli accumulatosi in anni e anni di attività. Fu la scintilla per intuire che questo pigmento poteva essere replicato in laboratorio, abbattendo i costi e inondando il mercato, che non aveva così più spazio per il prodotto naturale.

Con la nascita della chimica moderna, quasi tutti i pigmenti e i coloranti naturali vengono gradualmente sostituiti con prodotti sintetici creati industrialmente.

Una bella rivoluzione che porterà a una ridefinizione totale del concetto di colore, non più legato alla preziosità della materia ma alla tonalità in sé e alla percezione soggettiva di essa. D’ora in avanti il blu oltremare non è più esclusiva regale del manto della Madre di Dio, ma è anche il colore del cielo terso contro cui si staglia uno stormo di corvi alzatosi da un campo di grano, probabilmente l’ultimo celeberrimo dipinto firmato da Vincent Van Gogh prima di tirarsi una rivoltellata al cuore.

Con la sua breve ma intensa carriera, Yves Klein ha poi fatto una dichiarazione d’amore a questo colore, brevettandone un metodo di stesura e rendendolo il suo per antonomasia: anche i sassi conoscono l’International Blue Klein. Sassi azzurri dell’Afghanistan, ovviamente, anche se il pittore usava l’oltremare artificiale.

Nonostante le antiche glorie siano ormai andate, l’autentico lapislazzuli afghano non ha smesso di essere estratto. Non è certo la principale, ma è ancora oggi una redditizia fonte di guadagno per signorotti locali e sulfuree compagnie straniere che, in assenza di un vero stato democratico, da troppo tempo sfruttano un paese che avrebbe diritto a un po’ di pace e prosperità.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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