Per secoli, gran parte dell’arte è stata legata al mito ed alle religioni. L’opera dell’artista rappresentava una vera e propria epifania del divino.
Il rapporto uomo-Dio, generalmente declinato nel pensiero filosofico come un rapporto di derivazione creazionale, ha trovato un medium narrativo ed esplicativo in tutte le forme dell’arte.
Per secoli l’arte ha descritto, nelle chiese dei monasteri, sulle loro mura e sulle tavole degli altari, la storia dei libri sacri, rendendola “evidente” agli analfabeti ed agli ignoranti. Essa è servita, inoltre, ad esaltare la natura misterica e misteriosa dell’elemento religioso e divino palesando, nel contempo, la grandezza e la potenza di Santi, chierici e nobili potenti.
I più grandi artisti dell’occidente si sono confrontati con natività, crocifissioni, ascensioni, paradisi, inferni, storie bibliche ed evangeliche, vite di Santi e di committenti. Le nostre cattedrali racchiudono, più di qualsiasi altro museo, le più grandi espressioni artistiche dei secoli che ci hanno preceduto.
Recarsi in una città europea significa, in primo luogo, visitarne la cattedrale o i principali edifici religiosi, per apprendere, dalle forme architettoniche, dai contenuti pittorici e scultorei, la grandezza degli artisti che vi hanno operato, spesso avvicendandosi di generazione in generazione, nei secoli.
Il rapporto uomo-Dio attraverso la produzione artistica non ha coinvolto solo le arti figurative ma anche l’architettura e la musica: le più belle pagine di musica sono state composte per accompagnare i momenti liturgici ed i sacramenti, canti di giubilo e di contrizione, messe da Requiem e Te Deum, solo per ricordare alcuni dei momenti più alti della produzione musicale europea!
Per quanto attiene, invece, all’architettura, basti pensare come la grandezza delle nostre cattedrali è paragonabile solo alle Piramidi d’Egitto; come le nostre città, i borghi e le campagne assumono spesso valenza estetica da chiese e campanili e come gli ambienti architettonici delle chiese abbiano influenzato le modalità di costruzioni di palazzi pubblici e privati.
Il genio di Michelangelo ha espresso i “propri-collettivi” turbamenti e le sue profondissime tensioni attraverso “pietà” e “giudizi divini”. Masaccio ha incarnato l’uomo rinascimentale tra gli apostoli, Raffaello ha regalato all’umanità la dolcezza del viso di Maria ed il Parmigianino il suo orgoglio di madre.
In breve, gran parte dell’arte occidentale, fino al XIX secolo, è stata fortemente impegnata a mediare il rapporto tra uomo e Dio ed, in un certo senso, ha svolto una funzione rivelatrice.
In modo repentino ed inatteso, nella seconda metà del XX secolo, si è registrato il “divorzio” tra arte e Chiesa. Chi visita una chiesa dei nostri tempi risulta indifferente e più spesso disgustato dalla produzione artistica e da quanto affrescato o dipinto sulle pareti.
A proposito il grande critico d’arte Gillo Dorfles ebbe a chiedersi: “è sufficiente la fede per far accettare la mediocrità di tanta arte sacra contemporanea? E, d’altra parte, è possibile un’arte veramente attuale che sia anche sacra?”.
Il dilemma di Dorfles resta ancora estremamente attuale ed irrisolto.
È a tutti nota la frase, attribuita ad Agostino d’Ippona, secondo la quale “chi canta prega tre volte” e, più recentemente, Papa Benedetto XVI, parlando dell’arte sacra la definiva una privilegiata forma di evangelizzazione.
Come mai i musicisti non pregano più?
Perché gli artisti hanno cessato la loro predicazione del Vangelo?
E, più analiticamente, perché la Chiesa non ha più saputo o voluto patrocinare l’arte dei propri tempi, scegliendo modelli antichi, storici e culturalmente minoritari?
Ricordiamo ad esempio come negli anni ’50 e ’60, la Chiesa ha fatto una scelta in sintonia con il realismo sovietico ovvero quella di non seguire le tensioni artistiche contemporanee, ma di assecondare i convincimenti estetici fondati sull’imitazione del reale e sulla supremazia del figurativo. Essa si trovò, inoltre, straordinariamente ed incomprensibilmente, allineata ai canoni estetici nazisti che definirono e stigmatizzarono l’arte contemporanea come “arte degenerata”.
In realtà l’atteggiamento negazionista verso l’arte contemporanea, assunto dalla Chiesa, aveva radici storiche ed ideologiche più risalenti e diverse sia dall’estetica sovietica che da quella nazista.
Per comprendere le ragioni del rifiuto viscerale dell’arte contemporanea da parte degli uomini di Chiesa, bisogna risalire al 1899, ovvero all’anno di pubblicazione di un testo fondamentale per la cultura e l’antropologia del XX secolo: “L’ interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud.
L’opera di Freud, con la postulazione del ruolo dell’inconscio nei profondi moti interiori della persona, fa emergere un nucleo umano non controllabile e, come tale, non sottoposto al regime di colpevolezza ovvero alle dinamiche “condotta conforme-premio” e “condotta difforme-castigo”.
Il nucleo umano pulsionale si configura quale elemento sovversivo per qualunque fonte etico-normativa e, pertanto, risulta inidoneo ad essere sussunto dai canoni religiosi.
Orbene, l’arte contemporanea, per la gran parte, ha trovato e trova ispirazione nei movimenti ictali e pulsionali; essa, spesso, va a scavare non nelle viscere o nel cervello delle persone e neppure nell’anima, ma nel profondo dei nodi di non consapevolezza, nell’inconscio, nel sogno, nelle libere associazioni, non riconoscendo limiti, vincoli e talvolta orizzonti metafisici.
Gian Luigi Daccò, nel catalogo della mostra Riflessi della fede nell’arte contemporanea, tenutasi in Lecco nel settembre 2013, a proposito, ricordava: “recentemente monsignor Timothy Verdon riprendeva sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008 un acceso dibattito, che aveva visto impegnati filosofi, museologi e critici d’arte… Sosteneva Verdon che un’arte sacra è possibile ma molto difficile!”.
Lo stesso Daccò continuava quasi muovendo un rimprovero all’arte contemporanea per essersi in qualche modo, allontanata dall’ “oggetto bello”.
Questa distanza dalla bellezza, intesa come piacevolezza, euritmia, simmetria, precisione ed infine mimesi, avrebbe determinato una sorta di “rottura con l’umanesimo, religioso ma non solo, che caratterizza la nostra era tecnologica. L’arte del novecento ha dimenticato il divino con la perdita della certezza del valore della norma e l’invalidità della tradizione”. L’osservazione di Dacco’ può essere ancora sostenuta, ma soltanto come mera registrazione storica.
Non è corretto, infatti, dire in senso assolutoche l’arte si sia distaccata dal bello; in realtà riteniamo più preciso osservare che l’arte ha cercato dimensioni di bellezze ultronee e diverse da quelle prefigurate da canoni obsoleti e psicodinamicamente oggi insostenibili.
Molti artisti contemporanei ricercano la bellezza nell’immediatezza dell’atto creativo, nella casualità della costruzione, nella rappresentazione infinita del caos, nel rifiuto di forme date, nella libertà di superare i limiti artificialmente precostituiti per illudere tutti ed ognuno della possibilità di un mondo ordinato (cosmos).
Non è possibile predire che rapporto potrà svilupparsi in futuro tra religione ed arte ovvero tra uomo e Dio.
Se è vero che la rivoluzione illuministica non è valsa ad affermare totalmente il primato della Ragione, che la Scienza non è riuscita a sostituirsi alla Religione e che la Filosofia non è valsa a dimostrare la realtà della morte di Dio, è possibile che l’arte trovi ancora la possibilità di recuperare il senso del divino quantomeno inteso come assoluto, trascendente o immanente che sia.
V’è comunque un altro modo di intendere il rapporto tra arte e divino. La storia dell’arte ha mutuato dalla filosofia il concetto di Dio come sommo bene, aristotelicamente inteso come “ben dell’intelletto” è rappresentato come luce che disperde le tenebre. Il primo gesto divino fu la creazione o meglio l’emanazione della luce come prima impronta di sé.
Lo splendore dell’oro dei mosaici bizantini a noi è giunto nei fondi oro delle icone russe. Racconta come intorno alle figure divine splenda un universo di luce che ingloba e disperde ogni altro elemento. La dispersione di tutti gli elementi può essere ricondotta all’astrattismo geometrico dell’arte contemporanea e più modernamente ancora ai monocromi, grandi e bianchi, di Manzoni o i blu di Klein.
Ma quello che più fa riflettere è come, dopo l’annunciata morte di Dio nell’era moderna e contemporanea, il nero, quale espressione del non noto e dell’inconscio, ritorni a primeggiare e come le forze anticreative ovvero distruttive, come il fuoco entrino a pieno diritto nell’estetica e nei nostri gusti.
Pittori come Armand Pierre Fernandez, Yves Klein o Bernard Aubertin, identificano il proprio atto creativo con la distruzione della materia ad opera della fiamma. Si tratta di un’inversione del rapporto tra ecpirosi e catarsi con privilegiata ed esclusiva primazia dell’ecpirosi.