Di cosa parliamo quanto parliamo di collezionismo? Avete mai provato a cercare sul Dizionario il significato di questo termine? Ecco cosa recita il Devoto-Oli: (col-le-zio-nì-smo) s.m. – Amore per la raccolta di varie specie di oggetti, praticata talvolta per scopi culturali o di investimento finanziario, talvolta per una vera e propria curiosità o addirittura mania. Una definizione che ci fa capire già molte cose, in primo luogo l’ampiezza delle dinamiche che possono stare dietro a questo fenomeno. Eppure, a mio avviso, si tratta ancora di una spiegazione incompleta.
Ormai da oltre un trentennio, infatti, protagonisti indiscussi di questa pratica sono diventati gli stessi artisti che, oltre a collezionare per il semplice gusto di farlo, in modo del tutto separato dal loro lavoro, possono fare di questa pratica una fonte di suggestione se non addirittura di celebrazione, fino ad essere il cuore della loro creazione.
E’ il caso di Samuele Menin, scultore, che ha recentemente presentato a Milano, presso la galleria The Format, un lavoro decisamente affascinante: una rilettura in chiave plastica dei Quarantanove Racconti di Ernest Hemingway che trasforma il capolavoro dello scrittore americano in una “collezione” di 49 comodini illuminati da altrettanti abat-jour sotto i quali, ogni sera, 49 lettori appoggiano la loro copia della raccolta, addormentandosi con negli occhi le immagini del loro racconto preferito. Ma 49 e ¼ (questo il titolo dell’opera di Menin) non è l’unica forma di collezionismo praticata da questo artista, come ci ha raccontato in questa intervista.
Nicola Maggi: Samuele, ci racconti come è nata questa rielaborazione scultorea dei Quarantanove Racconti?
Samuele Menin: «Nei miei lavori tendo sempre ad inserire molto di ciò che è il mio passato e le mie passioni personali. Hemingway è stato una delle mie figure di riferimento, come scrittore, fin dall’adolescenza e uno dei miei libri preferiti sono proprio i Quarantanove Racconti. Mi è capitato, durante quest’anno, di rileggerlo e ad un certo punto mi sono reso conto di come alcune parti, alcuni frammenti dei singoli racconti, creavano in me delle sensazioni, delle emozioni ma soprattutto delle immagini visive; quindi mi sono detto: “perché non provare a trasporle?”. Così ho riletto tutti i racconti, ho sottolineato quelli parti che mi davano queste emozioni e ho visualizzato queste forme ragionando poi sul piccolo perché potessero funzionare sul comodino. Ne è nata, così, una collezione di immagini e di frammenti dei vari racconti come poi, in realtà, è già una raccolta l’opera da cui nasce questo lavoro».
N.M. In passato ci avevi abituato a lavori di ben altre dimensioni invece, questa volta, ti sei misurato con il piccolo, forse perché erano già abbastanza “grandi” i racconti di Hemingway…
S.M.: «In parte sì, ma mi piaceva, in particolare, sottolineare il loro essere dei frammenti di racconto come se corrispondessero a poche parole di una frase di Hemingway; creare delle sculture che fossero frammenti di sculture più grandi che però, pur nella loro dimensione ridotta, dimostrassero di avere una propria forza. Questo anche per sottolineare come nel “piccolo” possano esserci comunque delle potenzialità enormi a livello visivo, di immagine e di forma scultorea e poi mi sono divertito a colorarle in modo molto allegro».
N.M.: Le lampade, invece, che origine hanno?
S.M.: «La loro presenza nasce dalla constatazione che mettere sotto una luce corrispondere a mettere al centro della scena: se tu la illumini con un faro, dai peso ad una cosa. In questo caso mi piaceva l’idea che fosse una lampada normale a farlo, di quelle che si hanno in casa, sul comodino. Infatti molte di quelle che ho utilizzato mi sono state prestate da amici che per tutta la durata della mostra si sono sacrificati per prestarmele. E’ stato un modo anche per dare l’idea del calore della lettura, di un momento di intimità. La maggior parte di noi legge prima di dormire e quindi mi piaceva creare questa specie di sotto ambientazione».
N.M.: L’anno scorso hai partecipato al progetto Scultura/Lingua che in qualche modo rimandava all’opera di Arturo Martini e all’idea di una scultura molto fisica e materica. Quali sono i tuoi riferimenti come maestri nella scultura?
S.M.: «Come dici tu, nella scultura sono molto fisico. I miei maestri sono Brancusi, Arp, Giacometti ma in quel caso specifico le sculture erano derivate da delle incisioni di Dürer. Ho sempre fatto una ricerca trasversale di come alcuni dettagli di un’opera di altra natura sia possibile vederli in tre dimensioni secondo un principio che ho applicato anche ai 49 racconti. Nel caso di quella mostra, erano 12 sculture le cui forme erano ispirate dalle costole del rinoceronte di Dürer. 12 sculture della stessa forma in cui cambiava la base. Una riflessione sull’importanza della base nell’opera scultorea che già Brancusi aveva portato avanti ma che ho voluto esplicitare in modo ancora più chiaro ripetendo per dodici volte la stessa forma, posizionandola in modo diverso su basi dalle forme più varie, in modo da far capire come questa variazione influisse sulla stessa percezione. In un certo modo era una forma di collezionismo anche quella: la mia collezione di dettagli di Dürer».
N.M.: Ecco, a proposito di collezioni, tu ne dedichi una molto particolare ai tuoi maestri: una collezione di tatuaggi…
S.M.: «E’ una specie di collezione work in progress. Nel momento in cui mi rendo conto che c’è un artista del passato che mi influenza particolarmente o a cui sono particolarmente legato, scelgo una sua opera e la ridisegno, semplificandola, per poi farmela tatuare sulle braccia. Negli anni ho praticamente accumulato una sorta di “bigino” personale di storia dell’arte. Ti dico solo che in uno degli ultimi viaggi a Roma sono stato usato da Ludovico Pratesi come test sulla conoscenza della storia dell’arte nei confronti di altri curatori e critici. E’ stato molto divertente…».
N.M.: Come si è sviluppata nel tempo questa collezione?
S.M.: «Il primo tatuaggio che mi sono fatto è stata la piantina di Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini mentre l’ultimo è stato Steinberg, il disegnatore. Poi nel mezzo c’è stata la Maiastra di Bracusi, la Femme qui marche di Giacometti, un Arp, un Naum Gabo e la firma del Dürer…
N.M.: …una bella collezione direi…
S.M: «Eh sì, perché anche volendo entrare in possesso delle opere che scelgo sarebbe molto difficile, sono tutte museali. Mi piace perché me la porto costantemente in giro…».
N.M.: Un’ultima domanda. Di scultura si è tornati a parlare un po’ di più negli ultimi anni, dopo un periodo in cui forse si era un po’ persa di vista. Secondo te che ruolo ha oggi la scultura nel panorama artistico?
S.M.: «Come dici tu è stata messa un po’ da parte, perché in realtà al posto suo c’era molto un discorso più incentrato sulle installazioni. Adesso, mi sembra che giustamente stia tornando ad avere, non dico un punto focale, ma un certo interesse. Personalmente l’ho sempre vissuta come una necessità naturale. Mi diverto troppo a pasticciare con la creta cruda, a giocarci. E’ la tecnica che mi permette di più un contatto sia fisico, naturale ed esperienziale molto basilare, è la cosa con cui mi trovo più a mio agio. Una sorta di ritorno alla natura, ad emozioni più forti e meno filtrate. Ci si sporca direttamente: è una sfida molto corporea, fisica. Uno dei profumi che mi è rimasto più impresso, tipo quello delle Madeleine, è una passeggiata a Firenze lungo l’Arno: non so perché in quella mattina nell’aria c’era questo odore di fanghiglia talmente forte che subito mi ha colpito il naso, suscitando immagini fisiche, quasi sessuali. Un immaginario molto forte».
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