La Garisenda viene giù o non viene giù? A Bologna ce lo si chiede ormai quotidianamente dal novembre scorso, quando il comune ha lanciato un allarme molto serio su un eventuale collasso del basamento con conseguente adagiamento della torre pendente, nella peggiore delle ipotesi, sulla vicina Asinelli. Un disastro profetizzato (almeno dal 2019, sembrerebbe) che ora si cerca di evitare.
Qualche eco sinistra potrebbe aver risvegliato l’attenzione di qualche spirito sensibile in quel di Pavia, dove nel marzo del 1989 la torre civica crollò uccidendo quattro persone. Dramma nel dramma, l’edificio non venne mai più ricostruito, e oggi rimane solo un rudere monco nel pieno centro cittadino.
Quello pavese è un caso emblematico della potente contraddizione tra teoria del restauro e conservazione dei beni culturali e la realtà dei fatti nel nostro paese. Qualcuno decise che non valesse la pena ricostruire un edificio d’importanza civica e storica (quindi un monumento), forse perché una spesa del genere sarebbe stata solo uno spreco di denaro pubblico da investire in altro modo. Chi lo sa! Meglio evitare di formulare ipotesi o, peggio, giudizi. Tanto qualcuno avrà avuto delle ragioni. In Italia funziona sempre così: hanno tutti ragione al punto che alla fine nessuno ce l’ha. Sta di fatto che Pavia è sguarnita di torre civica da oltre trent’anni e ormai difficilmente le cose cambieranno.
Se Leonardo Borgese fosse vivo, avrebbe ancora tanto materiale per i suoi elzeviri pubblicati sul Corriere della Sera, raccolti nel 2005 in un saggio postumo dall’eloquente e veritiero titolo L’Italia rovinata dagli italiani. Si potrebbe contestare che fare i catastrofici di questi tempi è giocare facile, ma a leggere questi brevi articoli usciti durante gli anni della ricostruzione e del boom economico c’è da mettersi le mani tra i capelli. Specie se si è nati negli ultimi quarant’anni e si ha avuto in eredità un’Italia già disastrata.
Che poi per farsi un’idea nemmeno servirebbe leggere. Basta farsi un giro per i tanti orribili quartieri delle nostre città per rendersi conto di quanto siano stridenti rispetto alla bellezza armonica dei centri storici…o di quel che ne rimane, perché nemmeno essi si può dire abbiano vita facile.
Proprio su Pavia, Borgese scrive nell’ottobre 1957: “Infiliamo subito la strada del dolore, cioè il centralissimo corso Cavour. E subito vediamo che il gusto e il costume morale dell’odierna capitale lombarda (Milano, ndr.) trionfa qui pure.
Vogliamo essere rapidi e sintetici? Ecco: Palazzo Beccaria, del Trecento, già in pratica demolito. Contro l’ordine della Soprintendenza; favorevole alla rovina però la Commissione edilizia; neutra la Giunta comunale. Conservato un affresco popolare dell’Ottocento.
Spariscono, invece, volte e portico nonché un affresco del Quattro e Cinquecento con Deposizione che era sotto un piccolo arco del quale non troviamo nessun avanzo. Nel cortile giacciono abbattute le monumentali travi del tetto; i bei mattoni gotici pavesi formano una deprimente montagnola lì vicino. Sparite le finestre di cotto rosso, rovinati gli arconi poderosi.
Non restano su che cinque o sei metri di muri diroccati, sconciati, sbrecciati. Sentiamo noi pena e vergogna. Una grande banca costruirà qui la sua nuova, moderna sede. Pessimo affare, per la banca, per Pavia, per l’Italia”.
Questo è quanto, secondo Borgese. Vuoi l’incuria, vuoi la speculazione edilizia, vuoi la corruzione, vuoi pure l’oggettiva difficoltà tecnica degli interventi, qualcosa ha fatto in modo che gli italiani – o quanto meno chi li rappresenta – disattendessero quanto stabilito anche dalla stessa costituzione repubblicana. Nel mondo di oggi, sfacciatamente immanentista, un valore trascendentale come quello del patrimonio culturale è del resto piuttosto difficile da ritenere primario.
Constata Borgese che nella sua epoca “perfino ragionando appena dal lato affari e tralasciando ogni motivo di sentimento e cultura, dovrebbe apparir chiarissimo che se si conserva e rivaluta il patrimonio artistico si conserva anche la ricchezza. Invece no: meglio l’uovo oggi che la gallina domani”.
Noi siamo già alla frittata. Auguriamo alla Garisenda, però, di rimanere in piedi per almeno altri mille anni.