Classe 1940, Ettore Spalletti è nato e ha vissuto a Cappelle sul Tavo, un paese, o meglio, una contrada abruzzese della provincia di Pescara. Uno di quei luoghi immersi nel verde olivo della campagna, incastrato fra il rarefatto profilo azzurrino della Maiella e la luminosità piatta del mare Adriatico. La sua carriera ebbe inizio qui, quando già nei primi anni Sessanta fu lui stesso promotore di un rinnovamento del clima artistico locale aprendo la galleria G3 insieme a dei colleghi artisti, Elio De Blasio e Franco Summa, nella quale si trovava Giuseppe Capogrossi e Lucio Fontana.
Poi gli anni Settanta, più fervidi e vivaci grazie alle esposizioni realizzate dalla giovanissima galleria di Mario Pieroni nel Bagno Borbonico, che spaziava fra Getulio Alviani, Mario Ceroli, Luciano Fabro, Jannis Kounellis e dello stesso Spalletti. Mentre nel borgo di Bolognano, a poche decine di chilometri di distanza, Joseph Beuys e Lucrezia Di Domizio Durini si conoscevano e davano il via una sinergia che resistette nel tempo a venire. Infine la sua carriera che prese slancio negli anni Ottanta, con l’occasione di esporre in diverse città italiane, la sua entrata nella collezione del celebre Giuseppe Panza di Biumo, fino al riconoscimento a livello internazionale, che ancora non accenna a diminuire.
Il paesaggio e l’astrazione
Valutando le sue opere da un punto di vista molto ampio, l’attenzione di Ettore Spalletti per la natura, a differenza del citato Beuys o di altri artisti appartenenti all’Arte Povera, non si è mai esplicitata in un’azione diretta, un intervento, ma si è sempre risolta in un’osservazione attiva. Partendo da questi panorami, con gli orizzonti sfumati e indefiniti del mare e della montagna, viene in mente una sua celebre opera esposta durante la Biennale di Venezia del 1997 nel Padiglione Italia, intitolata Dolce far niente. Si trattava di una placida distesa marina posta all’altezza dell’occhio dei visitatori, la quale nella sua armonia cromatica era un invito a fermarsi e guardare.
Il colore è il suo marchio di riconoscimento: azzurro, rosa, grigio e bianco sono quelli a cui ricorre, più raramente al nero. Sono prelevati direttamente dalla natura e insieme costituiscono una gamma cromatica che copre la luce e l’ombra, l’atmosfera ( intesa come sintesi di aria e cielo). Gli impasti di colore, quando non sono direttamente pigmenti, vengono applicati sul supporto in più strati sovrapposti in modo da accentuarne la leggerezza e la volatilità. Predilige le tavole, ma chiamarle dipinti non è del tutto corretto: sono tagliate, estroflesse, inclinate, irregolari, aggettanti.
Le sculture sono volumi puri, cubi o cilindri, realizzati in marmo o alabastro generalmente. Fa spesso capolino una striscia o un angolo d’oro, a volte posta sul lato superiore così da essere quasi nascosta allo sguardo frettoloso ma che si palesa in un riverbero luminoso. Colore e volume, pittura scultura e architettura. Risulta molto complicato discernere fra queste categorie in quanto si fondono e si integrano fra loro, rimanendo fedeli solo a un codice personale fatto di un certo numero di colori, forme e materiali a sua disposizione.
Sono proprio queste infinite combinazioni a essere infine sublimate in quella che è, ad oggi, la sua ultima grande opera: la Cappella della clinica Villa Serena a Città Sant’Angelo, inaugurata nel 2017. Progettata insieme all’architetto Patrizia Leonelli, racchiude in sé tutte le ricerche portate avanti da Spalletti negli anni precedenti e allo stesso tempo le porta su un piano differente, resuscitando l’antico sogno dell’opera d’arte totale, frutto della creazione sincronizzata di ambiente e opere, spazio, volumi, colori e superfici.
La cappella di Villa Serena: un’opera d’arte totale
La cappella si presenta all’esterno come una costruzione di mattoni con pianta a croce greca, rinunciando a qualsivoglia tipo di apparato decorativo per far emergere la nettezza dei volumi puri. All’interno, invece, ci si ritrova in un Tempio del colore: l’azzurro si stende dal pavimento fino al soffitto inclinato come un prisma, offrendo un semitono diverso per ogni faccia angolare e cangiante in base all’ora del giorno. Accoglie all’ingresso una bassa colonna in marmo nero, elemento strutturale basilare e ricorrente nella produzione di Spalletti, che è qui diventata un’acquasantiera. Quando siamo andati a visitarla non c’era l’acqua, ma il basso fondo azzurro del bacile bastava a evocarne l’immagine.
Nel bracci laterali di destra si trova il tabernacolo, un lineare parallelepipedo d’oro, e in quello di sinistra un altare con la statua della Vergine. Bastano all’illuminazione le porte lasciate aperte e qualche candelabro in vetro disegnato da Carlo Scarpa per Venini, ma la luce è smorzata e ridotta allo stretto necessario. Dietro l’altare spiccano due sedute per i chierici che sembrano appena usciti da una fiera del design, ma una delle due è fin troppo riconoscibile: un cubo basso nero lucido con un angolo superiore tagliato, così che dal triangolo ricavato scaturisca l’oro.
Alle pareti quattro grandi quadri monocromi, altro suo tratto distintivo, i quali hanno una superficie aggettante così che il lato rivolto verso l’altare, dorato e con uno spessore maggiore rispetto agli altri, rifletta maggiormente la luce. Da sottolineare che quello è anche il lato opposto rispetto alle fonti di luce naturale ed elettrica effettivamente presenti, il che non lascia margine di dubbio la fonte sia, simbolicamente, l’altare stesso. Se l’oro è dunque manifestazione della luce divina, la si può vedere solo attraverso la metafora dell’opera d’arte e in una forma e un colore nettamente differente rispetto a quelli, atmosferici, che inondano il resto della cappella.
In questo ambiente sospeso nel silenzio le linee non esistono più in quanto tali, sono tagli della luce e dello spazio che servono a sezionare il colore e far apparire le sfumature e le ombre. Se è bastata un’occhiata per riconoscere il tocco dell’artista, lascia molto più spazio al dubbio un’altra questione: a chi è dedicata questa cappella? I riferimenti al cattolicesimo sono ridotti allo stretto necessario, in quanto oltre che nella pianta si vedono solo due croci, una più che essenziale, fatta di due sottilissimi bracci e appesa sulla parete dietro l’altare, l’altra ricavata dall’intersezione di due lamine d’oro incastrate fra i quattro blocchi di marmo che compongono l’altare.
Ai piedi della statua della Vergine ha trovato spazio un inginocchiatoio che ha spazio per un solo devoto, mentre alle sue spalle le fa da unico sfondo una parete, ovviamente monocroma, che scherma la luce proveniente dall’esterno e la rifrange tutto attorno. Dove sono le scene sacre, le simbologie ormai collaudate che hanno accompagnato le rappresentazioni artistiche in ambito religioso negli ultimi due millenni? Vengono allora alla mente altre cappelle recenti costruite oltreoceano da artisti che per la prima volta si misuravano con commissioni di questo tipo.
La Cappella Rothko a Houston, oppure la cappella realizzata ad Austin da Ellsworth Kelly, ad esempio. Entrambe in Texas e aconfessionali, ovvero aperte a tutti. Si tratta di spazi riservati al raccoglimento e alla meditazione, possibili forse solo in una nazione che è nata sui principi della libertà di professare la propria religione. Per quanto tutti loro divergessero l’uno dall’altro su molti punti – se nella sua carriera Marc Rothko ha portato avanti una ricerca sull’interazione dei colori, Kelly era più interessato alla relazione forma-colore a livello percettivo – entrambi a ogni modo hanno trovato piena espressione in questi ambienti.
Nel caso di Ettore Spalletti è come toccare il vertice di un triangolo: ha trovato la sintesi fra tangibile e invisibile costruendo dei volumi di colore dentro i quali i visitatori possano immergersi, riunendo in una forma organica le linee di ricerca che aveva parallelamente portato avanti. Con questo progetto si è realizzato infine uno spazio in cui l’arte è veicolo e scopo allo stesso tempo, recuperando la funzione sacrale che era stata accantonata nel corso dei secoli a vantaggio di un’estetica fine a sé stessa. Quale che sia il credo di questi tre artisti, pare che siano tutti uniti nel culto dell’Arte.