Quella del carnevale è una tradizione le cui origini si perdono nella notte dei tempi e se oggi viene per lo più associata ai costumi colorati, ai coriandoli e alle feste per adulti e bambini, le sue radici sono in realtà molto più complesse e profonde. Sono molte infatti le arti che hanno trovato proprio nel carnevale motivi di ispirazione e riflessione, dalla letteratura, al teatro, alla musica, alle arti visive, ciascuna prendendo in considerazione i diversi aspetti di cui questa sfaccettata festa si compone.
Il carnevale ha origini antiche, tanto che sembrano potersi riconoscere alcuni precedenti in certi riti religiosi tipici della cultura babilonese ed egizia. E’ tuttavia in ambito greco che possiamo trovare le manifestazioni più simili all’attuale tradizione: le feste dionisiache, in onore di Dioniso, dio dell’ebbrezza e della sregolatezza, in cui si celebravano il rinnovamento e la purificazione della terra. Interi cortei di danzatori e danzatrici si abbandonavano ai riti più frenetici, venivano liberati i carcerati e per qualche giorno si concedevano delle deroghe all’abituale vivere civile.
L’essenza delle feste dionisiache, che in ambito romano sarebbero diventate i Saturnali, dedicati al dio Saturno, con l’avvento del Cristianesimo vengono a coincidere con il periodo che precede il rigore della Quaresima, e diventano l’ultimo e unico momento in cui trasgredire alle regole in vista della difficile preparazione al periodo pasquale.
Come molti aspetti culturali e religiosi dell’antichità, anche queste ricorrenze trovano una qualche corrispondenza con il mondo rurale, i suoi tempi e i suoi rituali. Nello specifico queste feste avevano luogo quasi in concomitanza con la pratica contadina del sovvertimento delle zolle del terreno, per prepararlo alla successiva coltura durante la primavera e l’estate: rovesciare la terra, portare in superficie ciò che normalmente è nascosto, quindi, affinché si possa lavorare poi esattamente come si faceva prima.
Ed è proprio questo processo, che prevede il momentaneo sovvertimento dello status quo prima che sia rinnovato e ristabilito per il resto dell’anno, l’essenza stessa della tradizione carnevalesca. In fondo il carnevale è il momento in cui tutto diventa lecito, le classi sociali non hanno più alcun valore, il re diventa l’ultimo dei folli, e il più piccolo servo può diventare il re e comportarsi come gli sarebbe del tutto vietato durante il resto dell’anno.
In questa dinamica un ruolo fondamentale è giocato dalla maschera, che permette di assumere sembianze diverse dalle proprie e allo stesso tempo assicura l’anonimato, garantendo una metamorfosi senza conseguenze. Il carnevale diventa così la festa dei folli, in cui l’ordine viene sovvertito, chi sta al di sotto passa al di sopra e viceversa, e in generale chiunque per qualche giorno può diventare quello che non è e probabilmente non potrà essere mai.
Questo aspetto del rovesciamento dell’ordine è alla base di molta arte, dalla più antica a quella a noi più vicina: sono molte infatti le opere che illustrano scene, giochi o simboli legati al carnevale, spesso anche nell’ottica cristiana della sua contrapposizione alla Quaresima (si pensi ad esempio a Lotta tra il Carnevale e la Quaresima, di Peter Brueghel il Vecchio, 1559). E’ tuttavia nell’arte del Novecento, e in particolare nel Surrealismo e nel Dadaismo, che sembra possibile rintracciare alcune profonde analogie tra il senso della festa carnevalesca e l’essenza della ricerca artistica.
Il surrealista, infatti, con quel suo scavare nell’inconscio in cerca dell’origine dei nostri processi mentali, pare comportarsi un po’ come il contadino che sovverte le zolle, che va in profondità per portare in superficie ciò che normalmente non si vede, in questo caso le dinamiche del nostro pensiero e delle nostre analogie. Se infatti il pensiero razionale procede secondo i criteri della logica, quello surrealista sembra seguire una certa illogicità, ammettendo, come fa, processi associativi che visti dall’esterno possono non dimostrare alcun senso compiuto perché strettamente legati alla soggettività dell’artista.
Ecco che quindi un tavolo con tanto di gambe può diventare anche una vasca d’acqua con dei pesci, o un dado può perdere una delle sue facce e fungere contemporaneamente anche da scatola, o una stanza può non avere le pareti e aprirsi in una finestra allo stesso tempo, tutte analogie e associazioni, queste, che si ritrovano in un’opera di Joan Mirò dal titolo Il Carnevale di Arlecchino: è il 1924-25 e siamo agli albori del movimento surrealista.
Un tripudio di esseri, animaleschi o vagamente umani, in perfetto stile mironiano, che affollano una stanza-non stanza in cui sembra addirittura di poter quasi sentire i rumori, o forse la musica prodotta dai tanti strumenti musicali. E proprio ad Arlecchino sembra essere dedicata l’opera, anche se di Arlecchini potrebbero essercene addirittura più di uno, se vogliamo identificarli grazie alle corna, che gli sono rimaste dalla sua antica accezione di demone ctonio.
Certo è che il rovesciamento è evidente, un rovesciamento della logica di ambientazione e creazione dei personaggi, ma anche un rovesciamento della figurazione stessa, che non rispetta più le regole di prospettiva e chiaroscuro del mondo accademico, e che anzi volutamente le sovverte alla ricerca di una figurazione che favorisca l’indagine dell’inconscio: lasciar andare il braccio, sembra suggerire Mirò, vedere dove va e che cosa traccia, e solo in un secondo momento identificarvi una possibile forma o figura.
Ai margini della corrente surrealista, poi, a fianco di un pittore potremmo collocare uno scultore, che a sua volta si impegna in questa ricerca di una nuova logica tramite la pratica del rovesciamento: si tratta di Alexander Calder, che ridefinisce i confini e il concetto di scultura a partire dalle sue stesse caratteristiche fondamentali. Se infatti la scultura tradizionale è pesante, volumetrica, ben piantata a terra e tendenzialmente immobile, i mobiles di Calder risultano quasi dei disegni tridimensionali, leggeri, mobili, appunto, e spesso appesi al soffitto. Un capovolgimento fisico, dunque, che sottende una rivoluzione culturale, che svuota una categoria, quella della scultura, dei suoi tradizionali riferimenti per farla diventare qualcosa di nuovo e di diverso.
E in fatto di sovvertitori rivoluzionari, in un sottile quanto forse poco rilevante passaggio dal Surrealismo al Dadaismo, il più radicale di tutti, Marcel Duchamp, che prende un orinatoio, lo capovolge, lo data 1917 e lo firma con un falso nome, trasformando un oggetto ordinario, addirittura dei più umili, in una vera e propria opera d’arte. Quasi in una dimensione di gioco, possiamo ritrovare molti degli elementi tipici del carnevale in questo processo: il gesto dell’artista che, come il gesto del contadino, rovescia l’oggetto, gli mette una maschera (il falso nome, appunto), e lo fa diventare ciò che non è e che senza quella maschera non sarebbe potuto essere.
Che Duchamp pensasse o meno al carnevale, cosa in realtà piuttosto improbabile, rimane il fatto che la decontestualizzazione e il rovesciamento fisico diventano la metafora di una rivoluzione culturale, del passaggio da un ordine precedente a un nuovo ordine, attraverso il sovvertimento del primo e la costruzione del secondo: ecco la missione delle Avanguardie Storiche, che in quest’ottica diventano un po’ esse stesse il carnevale dell’arte.
Se però nel carnevale si fa in modo che tutto cambi perché niente cambi, e una volta trascorsi i giorni dedicati tutto torna alla normalità e lo sfogo rientra nei ranghi stabiliti e immutati, dopo le Avanguardie nulla sarebbe rimasto più come prima. Verrebbe quasi da chiedersi se l’ordine ristabilito sia il nuovo ordine (o i nuovi ordini?) dell’arte contemporanea, o se, in barba a qualsiasi linearità storica, non siano ancora finiti i giorni di quel carnevale, inaugurato da R. Mutt nel 1917.