“Collezionare è un esercizio estetico e la collezione è assimilabile a un tipo di opera”. Letta così questa frase dello storico dell’arte Elio Grazioli potrebbe scatenare una notevole curiosità. In effetti, una collezione di oggetti d’arte è ben di più che una semplice raccolta di pezzi. Chiunque si sia potuto definire collezionista anche solo per un breve periodo della sua vita sa bene che, dietro la voglia di mettere insieme elementi con una stessa caratteristica, c’è molto di più rispetto al semplice bisogno compulsivo di raccogliere.
D’altra parte il collezionismo contemporaneo ha abbandonato ormai da diverso tempo l’idea di una ricerca tutta tesa verso il concetto cinquecentesco di Wunderkammer. Ogni collezionista di oggi, mentre acquista e fa crescere la sua collezione, sviluppa un vero e proprio percorso personale denso di riferimenti alle sue passioni, alle sue esperienze, alla sua vita. Non si tratta di una propensione all’accumulo, ma piuttosto di una necessità di raccontare in forma diversa ciò che ci appartiene.
Collezionare è certo un modo di tenere insieme, ma probabilmente è prima di tutto un modo per circondarsi di oggetti che ci fanno stare bene, che migliorano l’ambiente che in cui viviamo e che soddisfano un certo nostro valore estetico.
Se, come dice Grazioli, pensiamo alla collezione come ad un’opera d’arte a sé, è facile provare a guardare agli artisti – più o meno contemporanei – che hanno fatto delle raccolte la loro poetica. Prima fra tutti, il riferimento potrebbe essere a Daniel Spoerri e alla sua Topographie anécdotée du hasard del 1962, opera in forma di mappa risultato di un rilievo quasi topografico degli oggetti presenti sul tavolo dell’artista e che rappresenta la prima raccolta – raffigurata – di un insieme di elementi. Continuando a guardare ad artisti che hanno scritto la storia dell’arte contemporanea, non si può non citare il Merzbau dell’artista dadaista Kurz Schwitters. Il Merzbau era a tutti gli effetti una raccolta disordinata, casuale e astratta di molti oggetti e costruzione.
Ma penso anche a figure più giovani, come l’artista cinese Song Dong che nella sua installazione Waste Not (2005) ripropone una raccolta avvenuta in più di cinquant’anni da parte della madre e che, ad ogni riallestimento, diventa l’occasione per rievocare la memoria del suo passato familiare.
Ogni collezione, quindi, potrebbe essere intesa come un escamotage – intellettuale, certo – del collezionista per creare un mondo parallelo, fatto di sue scelte concrete e costruito secondo le sue passioni. Potrebbe essere intesa, in effetti, come l’estremo gesto artistico del collezionista che crea così la sua unica opera d’arte.
Ma come si conserva un ecosistema così importante? Come si può fare in modo che nessuno dei tasselli, soprattutto emozionali, che un collezionista usa non venga dimenticato? Come si protegge dal passare del tempo un’opera assoluta?
In effetti, potrebbe apparire estremamente più semplice prendersi cura di una collezione se la immaginiamo proprio come una singola opera d’arte. Dovremmo quindi considerare il suo eventuale eclettismo come un elemento progettuale e intendere ogni singolo oggetto come una parte costitutiva dell’opera, che le permette di funzionare senza lacune, mancanze o elementi danneggiati.
Secondo questa logica, occorre tenere in considerazione ogni aspetto di una collezione: le stanze in cui le opere sono esposte o custodite, l’ordine di inventariazione, la qualità delle fotografie di dettaglio che abbiamo a disposizione e la capacità di ricostruire per ogni opera la storia che la ha caratterizzata. Sì, perché ogni aspetto che riguarda anche solo marginalmente la collezione concorre alla sua buona conservazione e incide sulla possibilità di trasmetterla in futuro.
E quindi per ogni oggetto varrà la pena tenere traccia della sua storia, di quale sia la motivazione per cui è stato acquistato, ricordarsi dove è stato visto la prima volta e chi ce lo ha venduto. Ogni opera dovrà avere un suo spazio documentato.
Una collezione è davvero assimilabile a un dialogo organico, continuativo che si arricchisce nel tempo di molti spunti nuovi. Per questo non accetta di perdere pezzi. E anche quando alcune opere vengono rivendute per acquistarne altre, è giusto rimanga traccia di questo passaggio e che nella narrazione della propria storia di collezionista si possa raccontare anche dei pezzi che non ci sono più.
E per far questo, qualsiasi buon conservatore – che poi è anche un restauratore – vi direbbe di documentare. Ne abbiamo parlato anche altre volte, tra le pagine virtuali del nostro blog (puoi leggere qui il mio articolo Documentare per non avere paura. Il primo passo per prendersi cura al meglio di una collezione): documentare è davvero il primo passo per conservare al meglio una collezione.
Il cambio di prospettiva potrebbe davvero rivoluzionare l’idea di collezionismo. O se non rivoluzionarlo, almeno innovarlo, renderlo più fresco.