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Andrea Martinucci: quando immaginario digitale e pittura si incontrano

del

Dopo la recente partecipazione alla mostra Endless Backup a cura dello spazio indipendente Ultrastudio e inserito nell’ambito di Outer Space – FuturDome a cura di Ginevra Bria con la direzione artistica di Atto Belloli Ardessi, il giovane artista romano Andrea Martinucci (1991) prosegue ed evolve la propria ricerca artistica, che pone in dialogo la tradizionale tecnica pittorica con i digital media. Martinucci ha saputo coniugare il proprio background in multimedia design con una solida padronanza del mezzo pittorico; questo connubio gli ha permesso di sviluppare opere determinate dalla compenetrazione tra l’immaginario digitale e l’apparato estetico e normativo che definisce la pittura. Questo corpus di opere emerge dal desiderio di testare le possibilità del fare pittorico nel contesto contemporaneo, dilatando il qui e ora rapportandosi con un mondo altro che è quello dei social network. Martinucci esplora la possibilità di seguire le attuali modalità di fruizione ed espansione su vasta scala di immagini attraverso la pittura. Pone su un piano differente il ruolo della tela che diviene spazio di rappresentazione dell’esperienza contemporanea, ma soprattutto crea una sintesi di interazione tra la temporalità e le prassi del digitale al mezzo pittorico come ci racconta in questa intervista.

Alessia Cuccu: Cosa è avvenuto dopo la mostra “Outer Space” a cui hai partecipato per FuturDome?

Andrea Martinucci: «L’esperienza con Ultrastudio, artist run space di Pescara in cui sono coinvolti Gioia di Girolamo, Ivan Divanto, Matteo Liberi e Maurizio Vicerè, con i quali è nata una grande intesa e Ginevra Bria è stata fantastica e importante; hanno creduto in me e nel mio lavoro. E’ stato un progetto molto sentito, di condivisione e interazione tra curatori e artisti. Subito dopo ho iniziato a sviluppare quello che per me è uno stadio successivo, una sorta di evoluzione, della serie a cui sto lavorando ormai da più di un anno, “.JPEG”. Dopo un primo periodo di sedimentazione e analisi sulla ricerca che ho portando avanti, per me è stato naturale proseguire e approfondire alcuni aspetti per poter migliorare le opere. Al momento sto ampliando ed esaminando maggiormente la scomposizione delle tele, per spingerle su un versante più astratto e frammentato. Tutto era partito con una disposizione doppia, due tele accostate l’una all’altra, questo per motivi economici e di trasporto delle opere; questa scelta, quasi obbligata, mi ha poi portato a intuire che era possibile frammentare la stessa tela e accostarne di altre in un gioco di mix di elementi, accorpabili per fini semantici o estetici. La ripetizione e la monotonia non mi appartengono».

Installation view during Outer Space - Futurdome, 2017. Courtesy l'artista
Installation view during Outer Space – Futurdome, 2017. Courtesy l’artista

A.C.: Com’è nata la tua pratica artistica?

A.M.: «Credo che si possa dire che la mia formazione è cominciata fin da quando ero un bambino, con un nonno scultore e un padre pittore; la mia famiglia è stata fondamentale nel lasciarmi la libertà di sperimentare le vicissitudini della vita, ma allo stesso tempo mi ha insegnato ad andare incontro alla mia curiosità. Questo desiderio di sperimentazione mi ha portato in adolescenza a sentirmi maggiormente parte della mia contemporaneità e del contesto che vivevo, portandomi a scegliere un percorso di studi in Multimedia Design all’Accademia delle Arti e Nuove Tecnologie a Roma. Il dogma era di andare oltre lo spazio finito e tradizionale della tela pittorica; paradossalmente una via che seguono in tanti, divenendo quasi “tradizionale”. Ma solo abbandonando la tela pittorica, ho compreso quanto in realtà fosse importante per me quella superficie. Non era più spazio di prigione, ma di introspezione con sè stessi, un dialogo intimo per poterne comprendere a fondo i limiti e le possibilità. Si può dire che a diciassette anni ho iniziato a concretizzare in pittura quell’introspezione adolescenziale ed esplorazione di me stesso senza la paura di intraprendere un percorso sconosciuto; crescendo questa traslitterazione sulla tela di uno spazio individuale si è evoluta, sfociando in un’indagine più complessa, più ambigua e più “leggera”. Al momento quello che cerco di fare è di essere presente, in quanto uomo e artista, nel contesto che vivo in un mondo globalizzato, nel quale grazie ai social puoi essere ovunque».

A.C.: Prima hai parlato del rapporto che è nato con il gruppo di artisti e curatori che portano avanti con grande passione Ultrastudio. Ritieni che la relazione tra la figura dell’artista e quella del curatore sia ancora possibile, nonostante la commistione che da anni si sta creando tra queste due figure?

 A.M.: «Come ho detto prima, oggi credo che la parola principale del rapporto tra artista e curatore debba essere “condivisione”; una connessione dialogica tra artisti e tra artista e curatore. Non possiamo essere degli elementi singoli e separati nel contesto dell’arte contemporanea; prima certamente era più sentita questa separazione di ruoli, ma con il passare del tempo proprio la figura dell’artista ha subìto un rivolgimento tale da renderlo un essere razionale in grado di prendere in mano la situazione tanto quanto la figura del curatore. Proprio a Milano questa situazione è particolarmente esplicita, con la nascita di project space che si rifanno a diversi modelli esistenti di spazi indipendenti determinati dal dialogo nato tra differenti professionalità.  Detto ciò non penso assolutamente che la figura del curatore debba essere sorpassata da quella dell’artista – curatore, anzi, ritengo che questa entità debba mantenere la sua individualità, ma sempre in un rapporto di scambio reciproco di idee con l’artista stesso».

Andrea Martinucci, 10102016.jpeg, 2016. Courtesy l'artista
Andrea Martinucci, 10102016.jpeg, 2016. Courtesy l’artista

A.C.: Quali sono le differenze sul piano artistico e di rapporto con l’arte contemporanea che hai vissuto e maggiormente sentito nelle tue due città: Roma e Milano?

A.M.: «Per me entrambe sono due città fondamentali; al momento Milano è la città giusta per me, ma non ne escludo una terza.   Ora mi sento parte di questo contesto, quasi “abbracciato” da un luogo che mi sta dando tanto. Roma è stata una “culla culturale” per me. Mi ha permesso di “perdere tempo” aspettando un tram e dando allo stesso modo una fluidità di indagine ai miei pensieri, che in un periodo di crescita erano fondamentali; avevo tutto il tempo per ascoltarmi. In una città come Milano invece questa operazione diventa più difficile, ma non impossibile; avendo consapevolezza di cosa voglio e conoscendo il contesto in cui sto vivendo qui e ora, senza alienarmi. Roma la vedo come una signora vecchia e sfatta, che deve far vedere quanto era bella prima; devo molto a quella città perché ho imparato tantissimo e penso di avere un differente approccio nel mio lavoro rispetto ad altri artisti proprio grazie al mio passato di formazione vissuto nella Capitale. Milano non è da meno, ma gli approcci sono molto diversi; i meccanismi di contatto, del mercato, della vivacità culturale reale sono percepibili fin da subito e ogni momento può diventare quello “giusto” per andare avanti perché il tessuto è pronto per assorbire quello che stai realizzando. Se dovessi fare un paragone con Roma, ecco Milano è una giovane ragazza che mi affascina, che a volte ti soffoca perchè non ti da il tempo per pensare, ma ti sa offrire un racconto sempre diverso, nel bene e nel male».

Andrea Martinucci, 29112016.jpeg, 2016. Courtesy l'artista
Andrea Martinucci, 29112016.jpeg, 2016. Courtesy l’artista

A.C: Vorrei approfondire, attraverso le tue parole, la serie di opere a cui maggiormente ti stai dedicando nel tuo “presente”, .JPEG.

A.M.: «Negli ultimi anni la mia ricerca artistica si è basata sull’osservazione minuziosa del mondo in contesti quotidiani reali e virtuali quali i social media. Per ogni progetto iniziato, la realizzazione delle opere costituisce solo una parte del processo di produzione artistica, che comprende una prima fase riflessiva di osservazione e indagine oltre a una di documentazione e condivisione dei diversi momenti di sviluppo del lavoro stesso. In questo modo tutte le mie considerazioni sono visibili diventando parte integrante dell’opera, accompagnando così il fruitore a comprendere il significato del progetto. A partire da questi contesti rappresento la contemporaneità con cui mi ritrovo ad avere a che fare, sintetizzandola ed estrapolando soggetti, relazioni e dinamiche che, sui vari mezzi, portano a focalizzare l’attenzione su significati nuovi e inaspettati. Da queste considerazioni sono nati progetti come OFFLINE (2013-2016), che ha aperto a una speculazione intorno al rapporto tra tecnologia e dinamiche interpersonali quale pretesto per raccontare una storia, sempre in una interazione dialogica tra il mezzo pittorico e il medium digitale; così come anche MAPPE (2015), progetto che ho creato durante la Residenza Artistica Bocs a Cosenza, mi ha permesso di partire da un’indagine sociale attraverso il dialogo con i cittadini cosentini per poi svilupparlo per il tramite di diversi medium sonori, pittorici e digitali. Due tappe molto importanti che mi hanno portato ad andare oltre, per concentrarmi su ciò che sta accadendo ogni giorno sui social network e di conseguenza nel reale. Tutti i giorni salviamo i nostri documenti in formato digitale, ma spesso non si è consapevoli del fatto che aggiornando continuamente i sistemi operativi e i software, i documenti e le immagini salvate con le vecchie tecnologie diventeranno sempre più danneggiati e a quel punto inaccessibili. Nei secoli che verranno, gli storici che si troveranno a guardare indietro alla nostra era potrebbero trovarsi davanti a un “deserto digitale”. La tematica è stata affrontata nel 2015 da Vinton Cerf, vicepresidente Google, al meeting annuale della American Association for the Advancement of Science; nel corso del talk invitò a stampare tutto quello a cui siamo legati per evitare di perdere i ricordi visivi nel “buco nero” di internet. Da qui è nata la mia riflessione, concretizzatasi con la serie “.JPEG”, indagine temporale sul digitale attraverso la forma pittorica, il mezzo più eterno in assoluto. I soggetti dei dipinti  li seleziono su Instagram, app dove milioni di utenti caricano foto accuratamente scelte, ricche di momenti importanti da condividere per donargli un’apparente immortalità. Durante l’upload però non pensiamo mai al fatto che stiamo affidando i nostri ricordi a un sistema fragilissimo, che potrebbe essere sospeso da un momento all’altro come è già successo ad altre piattaforme digitali».

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Andrea Martinucci, 04012017.jpeg, 2017. Courtesy l’artista

A.C.: Concretamente ho avuto modo di vedere la fase iniziale di questa ultima serie di opere che mi ha fin da subito affascinata per la connessione che si crea tra il mezzo digitale, di per sè labile, e il mezzo pittorico, come lo hai definito tu “il mezzo più eterno in assoluto” di cui padroneggi la tecnica. Ricordo quadri di dimensioni contenute su cui dominavano soggetti discrepanti tra di loro e astratti totalmente da qualsiasi tipo di contesto: dei piccioni che beccano i resti di pizza, un gruppo di turisti con selfie-stick annesso. Oggi, a distanza di un anno, torno nel tuo studio e posso avvertire e vedere con i miei occhi l’evoluzione di cui parlavi prima: gli strati di acrilico che compiono i passaggi di cancellazione del figurativo si sono fatti più pressanti, la decomposizione della figura fino alla perdita dell’informazione narrativa è molto più sentita.

 A.M.: «Al momento ho molta consapevolezza del percorso che sto facendo, probabilmente questa coscienza è dettata da grandi temi generali con cui mi sono ritrovato a che fare e non dalla singola serie che sto creando. Come hai detto tu, la primissima opera facente parte di .JPEG che hai avuto modo di vedere, è totalmente differente da ciò che sto facendo ora; questo perchè era in forte connessione con tutta la ricerca con cui prima mi rapportavo, una purezza nel linguaggio e nelle connessioni. Ora invece mi piace molto giocare sui contrasti, dove i soggetti possono essere colti in una maniera differente se approfonditi. Una costante è l’appropriazione per immagini a random delle vite altrui, per poi rielaborarle secondo la mia fantasia, senza conoscere il contesto o le dinamiche, ma compiendo questo percorso di comprensione attraverso la pittura. Parte tutto dai social, è un imput, ma poi non diventa un percorso didascalico, non c’è una comprensione mistica o profondamente insita e volta all’indagine filosofica attraverso le opere; non è quello il mio scopo. Tant’è che come accennavo prima, tutto nasce da me, ma la fruizione e la partecipazione mentale è soggettiva per ognuno di quelli che si trovano ad entrare in contatto con le tele; al momento per me l’evoluzione più importante deve avvenire nella pittura, la tela non è più superficie bidimensionale, ma “monitor” per la visione delle “gif” (ndr: “Graphics Interchange Format”). Infatti se nelle precedenti esposizioni in cui ho accostato alle tele dei tablet che permettevano di vedere una gif mostrando l’evoluzione della tela nelle sue differenti fasi, ora mi trovo a scegliere di non utilizzare più questa doppia visione; voglio lasciare spazio all’altro, per far percepire il sostrato che sottende alla tela stessa».

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