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Vercellone: “Arte e filosofia ci ricordano che siamo tutti dentro una comune costellazione simbolica”

del

Tra i filosofi italiani che provengono dalla scuola ermeneutica, Federico Vercellone è tra i più sensibili al dialogo con l’arte, in modo particolare con l’arte contemporanea, con il suo universo di simboli.

Classe 1955, Federico Vercellone è Professore di Estetica all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Le ragioni della forma (Mimesis, 2011); Dopo la morte dell’arte (il Mulino, 2013); Il futuro dell’immagine (il Mulino, 2017); Simboli della fine (il Mulino, 2018); Glossary of Morphology (Springer, 2020; co-edited with S. Tedesco); L’archetipo cieco (Rosenberg & Sellier, 2021); Bilddenken und Morphologie (DeGruyter, 2021; co-edited with L. Follesa) e L’età illegittima. Estetica e politica, in corso di stampa per Cortina.

Quella che segue è una lunga intervista, o meglio, forse, un dialogo che abbiamo avuto su questi ed altri temi.

Maria Cristina Strati: Che cosa può fare la filosofia per l’arte e l’arte per la filosofia?

Federico Vercellone: “Bella domanda. Io direi di cominciare dal secondo corno della questione: l’arte per la filosofia può fare molto, nel senso che l’arte individua una serie di coaguli simbolici che sono molto significativi per lo spirito del tempo. L’arte riesce ad esprimere, ma anche a produrre, a coagulare in sé, delle stazioni simboliche che rendono potentemente conto della situazione spirituale di un’epoca. Certo, non si tratta di un modo per rendere le cose più semplici, anzi: spesso l’arte rende conto dello spirito dell’epoca in modo molto sintetico, contratto, espressivo.

L’arte ha, poi, la capacità di metterci dinnanzi a una presenza attiva del discorso filosofico sulla scena sociale. Spesso i filosofi tendono a organizzare dei discorsi che si consumano all’interno di una cerchia apparentemente universale, ma che in realtà è molto specialistica. Ciò vale a maggior ragione per la filosofia analitica: quando i filosofi analitici si mettono a discutere, tendono a soffermarsi soprattutto su problemi di tipo fenomenologico, o percettologico, e questo li allontana dal senso comune”.

M.C.S.:Insomma, la filosofia vorrebbe essere universale, ma l’idea che arriva al pubblico è che i filosofi parlino di qualcosa che interessa soltanto loro…

F.V.: “Sì. Per esempio, prendiamo un tema che appassiona spesso e volentieri i filosofi analitici: se io mi chiedo che cosa mi capita quando percepisco un’atmosfera, e cerco di fornire una descrizione fenomenologica molto dettagliata di che cosa sia l’atmosfera e così via, si arriva facilmente a un punto in cui l’atmosfera “scompare” e il discorso filosofico resta destituito di ogni performatività. Ricorrendo all’arte, invece, la filosofia ritrova una performatività nello spazio pubblico, e così risponde a quello che è poi il suo compito di orientamento, di accompagnamento dello spettatore.

Ragionare filosoficamente, attraverso un discorso che può essere anche quello dell’arte, vuol dire operare all’interno di uno spazio pubblico condiviso, in cui il discorso filosofico, seppure rigorosamente trattenuto, può in qualche modo raggiungere il senso comune e intervenire su di esso. Così il discorso filosofico può acquisire una performatività sui comportamenti delle persone, degli individui, sui modi di essere e le forme di vita. Questo aspetto “performativo” rende arte e filosofia molto simili tra loro, anche se per altri aspetti sono diversissime. Entrambe, però, hanno questa possibilità di orientare in termini fortemente tradizionalizzati e organizzati il discorso pubblico. Mi sembra che se la filosofia perde questo, ha poi poco da fare.

Per esempio, tornando agli analitici, di cui dicevamo prima: è molto interessante creare un’atmosfera e poi descriverne il significato dentro uno spazio pubblico, ma mi interessa molto meno sapere come definisco l’essere dentro un’atmosfera, se quando sono in un’atmosfera ho una percezione total body o micro body e così via… La semantica del discorso non si può fermare lì”.

M.C.S.: Bene, questa è l’arte per la filosofia, ma che cosa può fare la filosofia, invece, per l’arte?

F.V.: “Probabilmente dipende da artista ad artista, non è sempre uguale. Ma di certo la filosofia, per l’arte in generale, secondo la mia esperienza può fare due o tre cose interessanti. Per esempio, la filosofia può discutere sui significati della tradizione artistica, sulla sua organizzazione, sulla sua offerta pubblica.

Può dire molto sul museo, e questo vuol dire riflettere in modo proficuo su certi modelli di organizzazione della memoria, di disposizione delle istituzioni. Può aiutare a riflettere anche sul rapporto tra le istituzioni artistiche ed il mondo circostante… Pensiamo ad esempio a ciò che capita a Torino, la nostra città: la Gam ha un patrimonio di almeno cinquantamila opere, ma ne sono esposte mediamente circa 250 – per volta. Questo vuol dire che il curatore ha il compito immane di fare una scelta felice all’interno di un patrimonio sterminato, esercitando, quindi, un forte potere sulla costruzione della memoria e dell’identità museale collettiva. Su questi argomenti la filosofia può certamente dire la sua”.

M.C.S.: Quindi la consapevolezza filosofica è fondamentale per chi opera nel mondo dell’arte?

F.V.: “Sì. Quando assumi certi ruoli (come il curatore di un museo ndr.) diventi un padrone della memoria, per certi aspetti. È un potere molto intenso. Quindi la riflessione sul museo ha un suo perché, anche e soprattutto dal punto di vista filosofico. Pensiamo al tema del museo aperto, un po’ quello che ha fatto Peter Weibel allo ZKM di Karlsruhe, facendo entrare lo spettatore nelle dinamiche museali attraverso connessioni mediatiche. Qui c’è tutto il discorso sulla memoria, sulla democrazia, entrano in gioco tutta una serie di cose con una evidente ricaduta filosofica. Poi, pensa quanto è importante una riflessione su quello che è l’indotto di tutto questo, anche in termini sociali ed economici”.

M.C.S.: È una questione anche etica…

F.V.: “Anche etica, naturalmente. L’arte oggi entra potentemente nello spazio pubblico. Pensiamo alle OGR, qui a Torino. L’arte entra in quasi tutto ciò che è archeologia industriale: entra nello spazio pubblico e lo orienta, spesso in modo anche politicamente connotato. Il discorso artistico transita spesso in uno politico. Ma come si determina la relazione con il passato di una comunità? Come si configura e indirizza questa relazione? Chi, come me, viene dalla tradizione dell’ermeneutica sente particolarmente questi problemi.

M.C.S.: Certo. Ad esempio, a proposito di tradizione, oggi siamo nell’epoca della cancel culture, che è quantomeno ambigua. Alcune situazioni sono davvero spinose, ma poi ci sono dei territori di confine che, in effetti, sono difficili da percorrere…

F.V.: “Qui entra in gioco la questione del monumento, della disseminazione dei simboli nelle città. Una questione che è di nuovo molto legata alla riflessione sullo spazio comune. Per me, che vengo dalla tradizione ermeneutica, queste poi sono domande che ne mediano altre più antiche… L’ermeneutica accosta, definisce e valida (oppure no) la performatività di testi letterari o figurativi, che hanno un peso o una performatività nel creare le radici di una comunità. Sono questi “testi”, in senso ampio, l’ispirazione dello spazio comune. Per millenni un ruolo del genere lo ha avuto la Bibbia, oggi un po’ meno. Questa è la stessa dimensione del monumento. Ma puoi lavorare, dal punto di vista concettuale, sul monumento senza filosofia? Ricordo, ad esempio, il bel lavoro fatto qui a Torino qualche anno fa da Dario Lanzardo, una semplice ripulitura dei monumenti alla vista, dalla sedimentazione del tempo. Anche lì un filosofo c’entra eccome!”

M.C.S.: Certamente! Ma a proposito di spazio pubblico: oggi stiamo vivendo in un contesto internazionale che definire davvero difficile e complesso è poco, non c’è bisogno che io ricordi perché… Secondo te che cosa hanno da dire l’arte e la filosofia sulle difficoltà del presente? Che risposte ci danno, o che domande ci pongono per aiutarci a capire meglio dove, e a che punto, ci troviamo?

F.V.: “Certo è un momento davvero difficile, tantissimo. La guerra, la violenza, l’accanimento contro la vita, si traducono anche in accanimento contro l’idea che la vita umana sia ineluttabilmente una vita simbolica. L’arte e la filosofia ricordano costantemente che non si può vivere al di fuori di un contesto simbolico. Fanno capire che siamo tutti dentro una comune costellazione simbolica, e che, per questo, siamo tutti concatenati in un’unica responsabilità comune: come si dice, una comunità di destino. Se non si riconosce questo, e per di più ci si abbatte con una violenza micidiale su questo contesto, azzerandolo, in modo estremamente aggressivo, si interrompe il vincolo simbolico e, insieme a questo, inevitabilmente, anche quello vitale: si interrompe la vita”.

M.C.S.: Riconoscere che viviamo in un sistema di simboli che sono essenziali per noi, vuol dire dare alla cultura un valore fondante…Invece c’è il pericolo che nel contesto dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin vengano bombardate opere d’arte fondamentali. Penso alla cattedrale di Santa Sofia a Kiev, alla scalinata di Odessa resa famosa da Eisenstein nella Corazzata Potemkin…

F.V.: “Esatto, è una barbarie. Ma è una barbarie che, seppure a livelli minimi, trovi anche nel senso comune e in situazioni più quotidiane. Facciamo un esempio limite: se si ha la possibilità di avere dei finanziamenti, e questi vengono interamente orientati sugli ospedali e non anche sui musei, vuol dire che non viene colto un punto fondamentale. Non ti rendi conto che c’è un vincolo simbolico che congiunge tutto e che non può essere spezzato senza spezzare la vita stessa degli individui”.

M.C.S.: Ora ti pongo una domanda, se vuoi, molto più personale: tu collezioni? Ti piace avere opere d’arte intorno a te?

F.V.: “Beh, non sono un collezionista. Avevo dei quadri di qualche significato in casa, come capita in molte famiglie, e ogni tanto mi capita di comprare qualcosa o che qualche opera d’arte entri in casa per qualche motivo, ma in modo non sistematico. Avevo però comprato uno dei primissimi De Maria, che era mio compagno di scuola. Poi ho avuto qualche regalo da parte di artisti a cui ho presentato una mostra, cose così. Ho una grafica di Dürer e una di Hogart, ma sono piccole cose. Di recente ho comprato un tavolo Biedermeier e un tavolo del seicento inglese. Adoro il biedermeier, quel mondo borghese ottocentesco…”

M.C.S.: Che cosa ti spinge a scegliere un oggetto o un altro? C’è un mondo nel modo in cui una persona si avvicina agli oggetti, li sceglie…

F.V.: “C’è sempre una domanda. Collezionare davvero è molto impegnativo finanziariamente, ma ti posso dire che cosa mi piacerebbe comprare: Richter o forse Nan Goldin. Di Goldin, per esempio, volevo l’autoritratto in treno, ma era esaurito”.

***

Bio: Classe 1955, Federico Vercellone insegna Estetica all’Università di Torino. Editorialista per La Stampa e di svariate riviste di settore, è stato visiting professor presso EHES di Parigi e alla Keyo University di Tokyo.

Tra le sue pubblicazioni più recenti: Le ragioni della forma (Mimesis, 2011); Dopo la morte dell’arte (il Mulino, 2013); Il futuro dell’immagine (il Mulino, 2017); Simboli della fine (il Mulino, 2018); Glossary of Morphology (Springer, 2020; co-edited with S. Tedesco); L’archetipo cieco (Rosenberg & Sellier, 2021); Bilddenken und Morphologie (DeGruyter, 2021; co-edited with L. Follesa) e L’età illegittima. Estetica e politica, in corso di stampa per Cortina.

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.

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