Stefano Moreni lavora dal 1997 per Sotheby’s, ove ha avuto modo di organizzare numerose vendite di arte contemporanea per la sede di Milano, ed è dal 2011 Direttore del Dipartimento Arte Contemporanea di Sotheby’s France. Lo abbiamo incontrato nell’ufficio parigino di Rue Saint-Honoré per un dialogo a tutto campo tra passione per l’arte, mercato e nuove tecnologie.
Daniele Bersano: Quali sono le principali differenze tra il mercato delle aste di arte contemporanea francese e quello italiano?
Stefano Moreni: «La prima differenza strutturale riguarda l’organizzazione delle vendite all’asta: mentre a Parigi – come a Londra – abbiamo un’asta dedicata all’arte impressionista e moderna e un’asta dedicata al secondo dopoguerra, in Italia Sotheby’s continua a fare con ottimo successo delle vendite che coprono tutto il Novecento. Riguardo i contenuti, Parigi beneficia della sua storia. Durante tutto il XX secolo la città ha accolto una nutritissima schiera di artisti internazionali di primo rango e questa tradizione di accoglienza contribuisce tutt’oggi a fare di essa una piazza internazionale di grande importanza, non solo per i collezionisti provenienti da tutto il mondo ma anche per gli artisti internazionali presentati: penso ad esempio a Zao Wou-Ki, trasferitosi dalla Cina nel 1948 o a Kazuo Shiraga, conosciuto in Occidente grazie al critico Michel Tapié e alla Galerie Stadler. Mentre le vendite a Milano sono focalizzate principalmente sull’arte italiana, Parigi permette dunque delle esplorazioni di più ampio raggio geografico».
D.B.: Quali sono invece le principali differenze tra il collezionismo francese e quello italiano?
S.M.: «Il tessuto geografico italiano è molto più ricco rispetto a quello francese: i collezionisti francesi sono localizzati a Parigi o nelle vicinanze, come d’altronde le gallerie più importanti e i principali avvenimenti artistici. L’Italia ha invece una ricchezza – che talvolta diviene un limite – di forti individualità locali. Milano è oggi un centro molto importante ma non si può fare a meno di città come Torino, Roma, Bologna o Verona. Lo stesso vale per i collezionisti, dispersi in ogni angolo d’Italia, con collezioni a volte locali o internazionali ma caratterizzate spesso da una forte impronta individuale. La Francia ha costituito il modello di riferimento per il secondo mercato per buona parte del secondo dopoguerra, dagli anni Cinquanta fino ai primi anni 2000: anche a Londra fino a circa vent’anni fa gran parte delle opere messe in asta era di artisti francesi. L’arte francese è quindi già ben presente nelle principali collezioni internazionali, cosa diversa per l’arte italiana, che ha iniziato veramente a diffondersi a livello globale solo da una quindicina d’anni a questa parte. Il boom dell’arte italiana è soprattutto focalizzato su alcuni nomi – prima Fontana, Manzoni e Burri, poi Boetti e l’Arte Povera, più recentemente Castellani e Bonalumi – che rispondono maggiormente ai gusti attuali. L’arte francese è invece ancora legata ad una dimensione pittorica importante – basti pensare all’Informale – mentre l’arte italiana del dopoguerra riflette una sperimentazione più spregiudicata, che le permette oggi di beneficiare di un’attenzione internazionale più forte. Il collezionista francese è comunque oggi molto aperto e ricettivo verso l’arte internazionale, il gusto è sempre più orientato verso l’arte contemporanea. In Francia ci sono state gallerie che hanno avuto l’opportunità e i meriti di avere proposto nel corso dei decenni ed in forma non episodica artisti all’epoca sperimentali ma che oggi sono considerati grandi maestri mondiali come Bacon, Twombly o Richter: si ritrova questo influsso culturale ancora oggi, nella formazione e nel gusto dei principali collezionisti francesi».
D.B.: Come viene considerata l’arte italiana del dopoguerra in Francia?
S.M.: « A Parigi si è molto curiosi verso l’arte italiana, e per questo credo che se nel nostro paese ci si preoccupasse di dare più informazioni, anche con mostre e retrospettive itineranti non solo in Francia ma nel mondo ci sarebbe un’attenzione più importante verso la nostra arte: molti dei nostri artisti sono completamente sconosciuti al di là delle Alpi! Bisognerebbe essere più coraggiosi salvaguardando i principi storiografici ma presentando al tempo stesso i nostri artisti in tutta la loro attualità, per dimostrare che non sono invecchiati e che non meritano di venire dimenticati. L’atteggiamento verso l’arte più contemporanea risente comunque anche in Francia della perdita dell’identità geografica e culturale delle proposte degli ultimi decenni: l’interesse è più marcato per le singole individualità artistiche piuttosto che per un comune denominatore nazionale».
D.B.: Cosa pensa degli ultimi trend di mercato in Italia? Queste tendenze rischiano di offuscare artisti altrettanto meritevoli ma meno sostenuti da gallerie e grandi collezionisti?
S.M.: «Il mercato Italiano sembra essere dominato oggi dalla rivalutazione essenzialmente di artisti operanti fra gli anni Sessanta ed Ottanta, legati ancora ad una tradizione pittorica astratta ma portata ai suoi limiti più estremi, dove la struttura stessa del dipinto, divenendo essa stessa opera, viene declinata in tutte le sue possibili varianti. Ciò che mi stupisce oggi in Italia – in parallelo alla riscoperta di artisti che fino a pochi anni fa erano ai margini del mercato dell’arte – è l’oblio quasi totale della prima metà del nostro Novecento artistico. L’attenzione è oggi forse troppo sbilanciata sugli artisti da riscoprire – che meritano in ogni caso il loro successo – mentre non si parla più di artisti che fanno parte della nostra identità culturale e contengono ancora una loro piena attualità artistica. Un esempio su tutti, il Futurismo: movimento capitale per la storia dell’arte mondiale, non ha ancora avuto il giusto riconoscimento da parte del mercato nonostante le mostre internazionali succedutesi negli ultimi anni anche in occasione delle celebrazioni del centenario. Forse alla celebrazione storica si dovrebbe accompagnare una rivalutazione estetica che prescinda da centenari o anniversari, insistendo sulla straordinaria vitalità e forza anticipatrice di questo movimento. Creare un vero archivio del futurismo, rafforzare le ricerche sull’opera dei suoi protagonisti e far riconquistare loro uno spazio nella programmazione artistica internazionale avrebbe ovviamente un effetto immediato sull’apprezzamento e sulla domanda anche commerciale verso le opere dei suoi principali rappresentanti. Avendo gusto, piacere, molto coraggio e un interesse non soltanto speculativo oggi si potrebbe costruire una straordinaria collezione di arte del primo Novecento italiano».
D.B.: Quali sono invece i principali trend di riscoperta in atto sul mercato dell’arte francese?
S.M.: «Riguardo le riscoperte di artisti francesi, le istituzioni giocano un ruolo fondamentale nella valorizzazione degli artisti nazionali. Penso alla retrospettiva dedicata dal Centre Pompidou nel 2009 a Pierre Soulages, artista molto famoso in Europa e negli Usa negli anni ’50 e ’60 e successivamente uscito un po’ dai riflettori del mercato. In seguito alla retrospettiva la curva di mercato dell’artista è salita in maniera notevole, con un incredibile interesse internazionale (100$ investiti in un’opera di Soulages nel 2000 valgono in media 547$ nel maggio 2016: fonte ArtPrice, NdR). Altro esempio la retrospettiva su Simon Hantaï sempre al Centre Pompidou nel 2013, artista molto interessante ma con un mercato fino ad allora “esoterico”, per pochi addetti ai lavori. In seguito a questo evento si sono succedute mostre a Roma, New York e Londra e le sue quotazioni sono cresciute sensibilmente. Qui le istituzioni hanno dunque la capacità di avere un peso internazionale nel mostrare la qualità degli artisti nazionali – attitudine che non sempre si ritrova in Italia – e questo costituisce una prodigiosa risorsa anche per gli artisti più importanti e già conosciuti. Ci sono poi oggi in Francia diversi artisti la cui storia è molto assodata considerati ormai di importanza primaria anche dal mercato, e la cosa più interessante è osservare geograficamente l’ampiezza di questo successo. Basti pensare al caso di Jean Dubuffet, che grazie a mostre internazionali (Londra, New York, Basilea…) ha una platea globale formidabile che lo rende la riscoperta francese più importante degli ultimi anni (27° artista al mondo per fatturato nel 2015, nel periodo 2000-2016 il 51% delle vendite sul mercato secondario ha avuto luogo negli USA, il 26% nel Regno Unito e solo il 20% in Francia: fonte ArtPrice, NdR)».
D.B.: Proprio a proposito della partecipazione di un pubblico sempre più globale alle aste più importanti, col superamento dello storico duopolio Europa-Usa, in che modo le innovazioni tecnologiche hanno influenzato la comunicazione tra case d’asta e clienti?
S.M.: «È molto probabile che già nei prossimi cinque anni assisteremo a innovazioni ancora più importanti: le tecnologie hanno modificato non solo da un punto di vista tecnico il mercato secondario (moltiplicazione delle modalità di acquisto, smaterializzazione della partecipazione alle vendite, database sempre più ricchi ed aggiornati…), ma stanno progressivamente cambiando anche la nostra percezione delle opere stesse. Questo sarà ancora più interessante e imprevedibile, anche perché non si conoscono ancora le ripercussioni possibili sulla idea stessa di opera: siamo ancora in una fase di piena evoluzione. Pokemon Go è un buon indicatore del possibile futuro della nostra percezione estetica! Da un punto di vista strettamente tecnico, oggi si assiste a un proliferare di case d’asta locali ma presenti su numerose piattaforme digitali e quindi con una clientela potenzialmente globale che incidono in maniera importante sulla conoscenza commerciale di opere e di artisti considerati secondari. Inoltre il valore delle opere è più chiaro da leggere, mediante database online come Artprice o Artnet: vi sono certamente più dati certi disponibili per l’acquisto di un’opera, anche se questi richiedono una capacità di analisi e valutazione non immediate».
D.B.: È stato questo effetto di riunificazione di migliaia di operatori secondari locali sotto l’insegna di Internet a contribuire a far passare in primissimo piano la natura finanziaria dell’oggetto artistico, sempre più a scapito della sua importanza storica?
S.M.: «Se il mercato è oggi l’unico modello culturale di riferimento disponibile – non solo per l’arte ma nel sistema generale dei valori – è inevitabile che uno dei criteri principali di valutazione di un’opera d’arte sia quello economico. Un collezionista accorto e lungimirante dovrebbe ancora oggi utilizzare altre chiavi di lettura nell’approcciarsi ad un’opera, traendo in questo modo profitto dal mercato stesso senza restarne vittima. La Storia e con essa la critica, categorie oggi ingiustamente trascurate – sono quanto ci ha consentito per secoli di abbracciare con lo sguardo il nostro passato e di scrutare l’orizzonte del nostro futuro. Per questo il mercato rischia di soffocare in particolare la creazione a noi attuale: se il modello di riferimento è ridotto all’istantaneità della legge della domanda e dell’offerta questo rischia di privare i suoi attori, in particolare i più giovani, di un respiro ideale più ampio e meno costretto dalla contemporaneità. L’effetto indesiderato potrebbe essere la riduzione del contemporaneo ad una chiave puramente stilistica, dove l’innovazione creativa è in realtà l’oblio del proprio passato storico. La globalizzazione del gusto rischia di trovare nel mercato un suo giustificativo privo di ogni altro confronto».
D.B.: Veniamo ad un bilancio per il primo semestre 2016: per l’arte del secondo dopoguerra si parla da tempo della possibilità di esplosione di una non meglio identificata “bolla speculativa”, ma per ora il mercato sembrerebbe solido.
S.M.: «Tra fine 2015 e inizio 2016 abbiamo letto incessantemente un profluvio di premonizioni sull’esplosione di una “bolla speculativa” e sul crollo del mercato dell’arte stesso, basato su un’analisi piuttosto approssimativa dei dati di vendite recenti. Oggi la realtà mostra che tutto questo non è avvenuto: sicuramente si assiste ad una riduzione dei volumi delle transazioni, con una riduzione dei lotti presentati in vendita e quindi dei fatturati, ma i valori delle opere si sono confermati, anzi in molti casi non hanno mai smesso di crescere. E la domanda per opere qualitativamente importanti non cessa di aumentare: l’asta serale di maggio 2016 a New York, per esempio, ha registrato il 95% di venduto, risultato migliore dal 2009. Se oggi diventa per tutti gli operatori più difficile reperire opere interessanti per la vendita non è certo per la sfiducia nel mercato, ma piuttosto è il riflesso della congiuntura finanziaria internazionale molto particolare: il Quantitative Easing ed i tassi di rendimento pari a zero – o addirittura negativi – che ne conseguono rendono le liquidità derivanti dalla vendita di un’opera molto meno interessanti. Di conseguenza, molti preferiscono conservare un’opera considerandola come un investimento materiale più sicuro rispetto ad un investimento finanziario. Altro esempio di predizioni sconclusionate, molti “addetti” si attendevano ad inizio anno una consistente riduzione dei volumi di vendita del mercato asiatico che ha come centro principale Hong Kong: in realtà per questa sede le vendite di Sotheby’s del primo semestre 2016 sono addirittura in netta progressione (+22%) rispetto all’anno precedente! A livello globale il primo semestre si conclude dunque in maniera sicuramente positiva».
D.B.: Chiudiamo con una domanda legata alla recente attualità: la vittoria del Leave nel referendum su Brexit avrà un impatto sul mercato dell’arte internazionale?
S.M.: «È troppo presto per immaginare ciò che potrà succedere, a parte la momentanea svalutazione della sterlina che ha avuto un effetto positivo sulle vendite post-Brexit di Londra di fine giugno. Mi preoccupano di più le potenziali conseguenze non solo politiche ma anche culturali della perdita di orizzonte comune che il Brexit ha rappresentato: nessuno ha ricordato che l’Unione Europea, con tutti i suoi limiti, nasce dalle ceneri della seconda guerra mondiale. La perdita di un’identità comune, faticosamente costruita negli ultimi settant’anni, non sembra essere compensata oggi dal riapparire di individualità locali culturalmente forti, ma al meglio da un miope campanilismo che non riesce ad esprimere nulla di meglio che una sagra di paese. Se questo degrado dovesse perdurare, anche l’arte, col tempo, ne subirà le inevitabili conseguenze».