Sono passati più di due anni dalla scomparsa di Jannis Kounellis e, in occasione della grande retrospettiva a lui dedicata a Venezia in questi mesi da Fondazione Prada, ci si rende conto che molti aspetti della sua opera meritano ancora una riflessione. Del resto anche lui si era detto spesso convinto che l’arte avesse un fondo di incomunicabilità, di mistero che le è proprio, che rende di fatto inesauribile l’opera stessa.
Nato nel 1936 in Grecia, Kounellis è cresciuto in un paese in stato di guerra a causa, prima, del secondo conflitto mondiale, poi per la guerra civile che durò fino ai primi anni Cinquanta. A 20 anni Kounellis decise di trasferirsi a Roma e lì finì con lo stabilirsi, iniziando a frequentare alcuni corsi dell’Accademia dove strinse dei rapporti con i giovani artisti del suo tempo.
In quegli anni Alberto Burri e Lucio Fontana erano i modelli a cui la sua generazione guardava, sempre più insofferente al clima refrattario alle novità degli ambienti ufficiali di formazione artistica. E c’era fermento a Roma nei primi anni ‘60, c’erano Cy Twombly e Pino Pascali, la scuola di Piazza del Popolo, ma anche il cinema e Pier Paolo Pasolini, come una città che sale di boccioniana memoria. Qui Kounellis cercò prima di tutto un orientamento, imparando la lingua e i segni del paesaggio urbano che per lui erano sconosciuti, realizzando quadri pieni di lettere e di frecce, poi di numeri e di parole: olio, tabacchi… le insegne che erano parte del paesaggio urbano.
Kounellis dopo qualche anno poggiò il pennello e dalla rappresentazione passò alla presentazione di oggetti e materiali di uso comune e, a volte, elementi vivi come degli uccelli appollaiati di fianco a delle tele monocrome. Una considerazione della materia che va utilizzata in quanto sé stessa che certamente deriva da Burri, ma che il giovane Kounellis porta su un piano molto diverso. Una differenza data anche dalla loro formazione, che nel caso di Kounellis raggiunge l’acme negli anni immediatamente precedenti il ‘68, un momento storico in cui gli artisti sono chiamati a uscire fuori dai luoghi deputati all’arte, a prendere posizione e a intervenire nella società.
Lui si ritaglia un ruolo che prevede un impegno critico e politico (inteso come gli aspetti inerenti la vita pubblica dell’uomo nella città) nei confronti della storia dell’arte stessa. Quando fece entrare 12 cavalli nella Galleria l’Attico di Roma nel 1969, il suo gesto non voleva essere provocatorio ma era piuttosto il tentativo di rinnovare ulteriormente una delle immagini più frequenti nella storia della cultura occidentale aggiungendo la carne e il sangue, il respiro e il calore dell’animale.
Kounellis stava cercando ciò che cercavano Pablo Picasso e Kurt Schwitters quando nei loro collage inserivano ritagli di quotidiani e altri elementi “prelevati”: che l’arte e la vita coincidessero. Non c’è cesura con l’arte del passato, spesso sarà lui stesso a citare i maestri e le opere che sono stati i punti di riferimento del suo lavoro. In questo rapporto critico e dialettico con la storia, una sorta di fiume carsico che attraversa la sua carriera, arriva a realizzare delle installazioni in cui dispone dei materiali grezzi, sui quali interviene più o meno drasticamente.
Ad esempio dei grandi carrelli e basi di ferro o piombo sostengono cumuli di carbone, oppure delle balle di lana e cotone grezzo sono appesi a grandi pali lignei, così come cappotti e cappelli sono sugli appendiabiti o disposti ordinatamente per terra. Si è sempre riconosciuta una comune radice antropica in tutti i materiali preferiti dall’artista, nel senso che sono le materie prime del lavoro, quelle che hanno segnato i traffici e gli spostamenti degli uomini, o che caratterizzano un’epoca: sono cultura.
La piccola storia e la grande storia si intrecciano spesso, basti guardare il monumento “Resistenza e Liberazione” realizzato nel 1995 per l’Università di Padova, in occasione del 50° anniversario dalla fine delle Seconda Guerra Mondiale e dedicato alla memoria di tre professori antifascisti. Questo è quanto si legge nel cartellino esplicativo per i visitatori, che si avvicinano per lo più increduli, in un cortile liberamente accessibile per tutti, e si trovano di fronte a una parete di legno, formata da assi di varia grandezza e misura disposte in due modi: sono accatastate le une sulle altre nella metà inferiore, mentre nella metà superiore disposte in file orizzontale e verticali.
Ricorda un po’ altre installazioni, in cui Kounellis riempie il vano di una porta con delle pietre in modo da chiuderla completamente, anche se in questo caso non si chiude un’apertura ma si ricava uno spazio poco profondo nel muro dove inserire le assi. Il legno ha un aspetto dimesso, preso nella campagne fuori dalla città e non ha alcun valore economico. Ciò che resta e che è possibile vedere è la ricomposizione in una immagine di due tipi di ordine sovrapposti e contrapposti, altrimenti detti una coppia di opposti: ordine-disordine.
La forma e la metafora coincidono in un’immagine dialettica che può essere letta sotto molteplici aspetti: come un’alternanza fra tempo di guerra e tempo di pace, fra scomposizione e ricomposizione, fra un tempo simultaneo, sempre presente e caotico in basso e uno strutturato in una linea temporale di passato-presente-futuro. Quasi come sarebbe guardare un paesaggio di Parigi dipinto da Robert Delaunay accanto alla griglia prospettica del Rinascimento fiorentino.
C’è molta storia e molta letteratura in questa povera parete di legno, il che ci porta a considerare in quale modo la memoria dell’artista e la memoria collettiva si intrecciano e fin dove si può spingere quella che chiamiamo la “spiegazione” dell’opera d’arte. In questo rapporto si inseriscono storie, miti, informazioni, ricordi che rendono tutto il mondo segno, ovvero portatore di significato. Il legno è legno, ma è anche un materiale antico fra i più usati dall’uomo ed evoca miriadi di immagini.
Serve a costruire la maggior parte degli utensili, dei mezzi per coltivare e abitare. Per viaggiare per terra e per mare in lunghissime rotte di traffici che collegano il mondo. Si lega a immagini di distruzioni, guerre, roghi e barricate. È il cavallo di Troia e Dafne trasformata in albero di alloro. Il legno combusto serviva a tracciare i primi disegni che iniziano a raccontare la storia della civiltà umana.
Il ferro, il carbone, la lana e il cotone, la carta, gli abiti, il caffè, il piombo, sono segno e metafora e qui Kounellis si distanzia fondamentalmente dal maestro Burri. Infatti nelle sue opere l’arte non può essere autarchica né autoreferenziale ma è comunque il centro di un ambiente relazionale nel quale è immersa e, con le sue parole, polarizzano l’energia. Non si può interrompere la catena delle significazioni, non c’è punto di arrivo.
Nelle opere di Kounellis c’è sempre un contrasto o una metamorfosi in atto: il gas che brucia e diventa fiamma e fumo, la leggerezza e la pesantezza che si bilanciano tra il ferro e una treccia di capelli, dei fiori, o un uovo; il bianco e il nero delle pitture della serie delle Rose. Questo contrasto serve da cortocircuito visivo che spinge a fermarsi per comprendere, a capire come fanno quelle cose a stare insieme. Così che l’arte è davvero arte dell’uomo, espressione della sua cultura e della sua storia che si oppone alla distruzione e all’oblio.