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Il potere distruttivo delle fondazioni

del

È di qualche settimana fa la notizia che lo Chagall Commitee ha “trattenuto” un dipinto dell’autore russo naturalizzato francese al fine di distruggerlo, perché ritenuto falso. (leggi -> A Fake Chagall Painting? Attribution and Authenticity in the Auction World)

Il dipinto era stato inviato alla commissione dalla collezionista Stephanie Clegg perché venisse autenticato, su suggerimento della casa d’aste Sotheby’s, dalla quale la signora Clegg aveva acquistato il dipinto nel 1994 per 90.000,00 dollari.

Non è la prima volta, peraltro, che la Chagall Commitee – presieduta da due nipoti dell’artista – “trattiene” un’opera di Chagall perché giudicata falsa al fine di distruggerla: un caso analogo era accaduto nel 1994 al collezionista inglese Martin Lang.

Notizie di questo tipo allarmano i collezionisti e gli operatori del settore che si chiedono da un lato quale tipo di responsabilità abbia la casa d’asta per aver venduto un’opera poi rilevatasi falsa, e dall’altro se una fondazione (che tutela i diritti d’autore di un artista) possa distruggere un’opera perché ritenuta non autentica.

Cercheremo qui di dare una risposta – basata su quanto previsto dall’ordinamento giuridico italiano da un punto del diritto civile – a quest’ultima domanda.

Per tranquillizzare gli animi, diciamo subito che una fondazione non può certo legittimamente distruggere di sua iniziativa l’opera d’arte di proprietà di un terzo in quanto ritenuta falsa.

La distruzione potrebbe avvenire infatti solo a seguito di un ordine impartito dall’autorità giudiziaria[1] nell’ambito di un processo.

Tipicamente avviene che il proprietario di un’opera, al quale la fondazione di turno ha negato l’inserimento nel catalogo generale dell’artista e la sua autentificazione, citi in giudizio quella fondazione per chiedere la condanna di questa all’inserimento di quell’opera nel catalogo generale e alla sua autentificazione.Nell’ambito del processo, la fondazione si difenderà dicendo che il mancato inserimento a catalogo e la mancata autentificazione sono dovuti alla falsità di quell’opera, e a sua volta chiederà al giudice di dichiarare la non autenticità dell’opera e la sua distruzione.

In casi come questi, l’autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi, se dichiarasse la falsità dell’opera, potrebbe ordinarne la distruzione.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, infatti, il potere di disconoscere la paternità di un’opera falsamente attribuita all’autore sarebbe parte del diritto di paternità di cui all’art. 20 della legge sul diritto d’autore (Legge 22 aprile 1941 n. 633: “Legge Autore”).

Se il giudice, dunque, ritenesse l’opera falsa e aderisse all’orientamento appena visto – ritenendo che la falsa attribuzione dell’opera all’autore violi il diritto d’autore alla paternità, potrebbe comminare appunto la sanzione della “distruzione”, ai sensi dell’art. 169 Legge Autore.La norma in questione, in ottemperanza al principio di derivazione comunitaria[2] di proporzionalità tra gravità della violazione e la sanzione, prevede che “l’azione a difesa dell’esercizio dei diritti che si riferiscono alla paternità dell’opera può dar luogo alla sanzione della rimozione e della distruzione solo quando la violazione non possa essere convenientemente riparata mediante aggiunte o soppressioni sull’opera delle indicazioni che si riferiscono alla paternità dell’opera stessa o con altri mezzi di pubblicità”.

Anche se la sanzione della distruzione dovrebbe quindi considerarsi una extrema ratio, è stata più volte applicata dalle corti italiane, ad esempio in alcuni casi di falso relativi ad Achrome attribuiti a Piero Manzoni[3].

In altri casi, invece, sempre relativi ad Achrome falsamenti attribuiti a Manzoni, le corti giudiziarie hanno deciso di non applicare la sanzione della distruzione ma quella della eliminazione dall’opera dell’indicazione della paternità o l’apposizione di correzioni[4].

In base a un diverso orientamento giurisprudenziale, l’interesse dell’autore al disconoscimento della propria opera sarebbe invece tutelato non dall’art. 20 Legge Autore ma dagli articoli 7 e 8 del Codice Civile, che tutelano il diritto al nome[5]. Qualora il giudice chiamato a pronunciarsi sull’autenticità di un’opera aderisca a questo altro orientamento, la sanzione sarebbe non la distruzione ma la cessazione del fatto lesivo, la c.d. inibitoria (art. 7 Codice Civile)[6].

Poiché la distruzione è irreversibile, alcune corti hanno, giustamente, condizionato l’esecuzione della sanzione al passaggio in giudicato della sentenza (così Trib. Milano, 25 novembre 2004)[7]: se i gradi successivi del giudizio ribaltassero la decisione e ritenessero l’opera autentica, la distruzione materiale dell’opera renderebbero infatti impossibile la restitutio in integrum.

In applicazione di questi principi, ricordiamo che nel 2017 la Fondazione Piero Manzoni ha distrutto 39 Achromes attribuiti a Manzoni ma giudicati falsi dal Tribunale di Milano, in esecuzione della sentenza del 4 ottobre 2006, passata in giudicato.

Ha senso distruggere le opere ritenute false dalle corti giudiziarie? Io credo di no.

Innanzitutto perché, come la storia ci ha dimostrato più volte, il giudizio di autentica è fluido e può essere modificato nel tempo al sopraggiungere di nuovi elementi: se un’opera venisse distrutta a seguito di un primo giudizio di non autenticità, verrebbe persa per sempre.

Inoltre, i falsi possono essere utilizzati come mezzi di studio e analisi per i futuri storici dell’arte, periti, banditori, etc., come termine di paragone per distinguerli dagli autentici. Così hanno fatto peraltro molti musei e istituzioni culturali nel mondo, come la National Gallery di Londra nel 2010, che ha organizzato l’esposizione “Close Examination: Fakes, Mistakes and Discoveries”, incentrata su 40 dipinti falsi, comprati dall’istituzione museale per errore, o l’Università degli Studi Roma Tre nel 2019, che nell’esposizione dal titolo “In difesa della bellezza” ha presentato 108 opere false sequestrate dai Nuclei del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale.


[1] Questo principio vale anche in Francia. Le notizie relative alla Chagall Commitee omettono infatti di riferire che la distruzione avviene solo a seguito dell’ordine della corte giudiziaria.

[2] In base all’art. 10 della Direttiva 2004/48/CE del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, c.d. Direttiva Enforcement, stabilisce che “Nel considerare la richiesta di misure correttive si tiene conto della necessità di proporzionalità tra la gravità della violazione e i mezzi di ricorso ordinati, nonché degli interessi dei terzi”.

[3] Si veda ad esempio Trib. Milano, 18 gennaio 2006, che, una volta accertata e dichiarata la falsità di un Achrome attribuito a Piero Manzoni, ha stabilito che “qualora la natura dell’opera (e precisamente il fatto che sia un falso) ne escluda una dignità economico-artistica al di fuori dell’attribuibilità al preteso autore, il giudice che accerta la falsa attribuzione di questa paternità deve disporne la distruzione”.

[4] Cfr. ad esempio Trib. Milano, 17 ottobre 2007, secondo cui “in caso di violazione dei diritti morali dell’autore, consistente nell’apposizione di una sua firma falsa sul retro di un quadro, l’opera così firmata può essere “restituita” al suo proprietario, obbligandolo ex art. 169 l.a. ad apporre sul retro di essa in maniera indelebile un’attestazione della non autenticità dell’opera”. Secondo il Tribunale in quest’ultimo caso infatti la misura dell’apposizione dell’attestazione di non autenticità “appare sufficiente ad eliminare ogni pregiudizio, tenuto conto che non risulta che l’opera contestata sia stata oggetto di particolare diffusione in esposizione o pubblicazioni”. In senso analogo anche App. Milano, 19 agosto 2010.

[5] Aderisce a questo secondo orientamento, ad esempio, Trib. Roma, 26 giugno 2019, chiamata a decidere in merito all’autenticità di alcune opere attribuite a Keith Haring e/o delle firme dell’artista.

[6] L’art. 7 Codice Civile stabilisce che “La persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”.

[7] In base al disposto dell’art. 282 c.p.c., infatti, la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti: ciò che è stato disposto dal giudice può dunque essere attuato immediatamente.

Federica Minio
Federica Minio
Nata a Verona ma di famiglia veneziana, Federica è un avvocato esperto in diritto della proprietà intellettuale e dell’arte ed è stata tra le prime in Italia a laurearsi in diritto dei beni culturali. Prima di intraprendere la professione legale, ha lavorato in gallerie e fondazioni d’arte milanesi. Federica unisce la sua passione per l’arte, da sempre respirata in famiglia (assieme al profumo della trementina del papà pittore), al lato più creativo del diritto.
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