New York, 15 marzo — Causa il gran freddo che si abbatte su New York in questa stagione, nonché molteplici impegni di lavoro, era davvero parecchio tempo che non facevo un giro per le gallerie di Manhattan. E questo è invece un periodo ricco di proposte interessanti nella Grande Mela.
Mentre allo Shed — il grande centro culturale situato nel nuovo complesso di Hudson Yards che sorge sulle rive del fiume tra la 30ma e la 34ma Strada Ovest — è in corso la maggiore mostra di Tomás Saraceno finora presentata negli Stati Uniti, dal titolo Particular Matter(s), la Tanya Bonakdar Gallery, che rappresenta l’artista argentino, espone alcune sue opere nello spazio al 521 della W 21st St.
Domina una grande installazione, Algo-r(h)i(y)thms, ispirata alle tele di ragno con cui Saraceno usualmente lavora: una struttura che occupa un’intera sala, realizzata con fili di nylon che, se toccati, danno vita a impulsi sonori amplificati dai diffusori stereo.
Tra le altre opere, due video: WEBSDR e The Politics Of Solar Rhythms: Cosmic Levitation, entrambi lavori che esplorano i fenomeni vibrazionali che si verificano su scala sia cosmica che microscopica. WEBSDR è un’immagine creata dalle radiofrequenze generate dai meteoriti che colpiscono lo strato superiore dell’atmosfera, mentre The Politics Of Solar Rhythms: Cosmic Levitation, sviluppato nell’ambito di un esperimento proposto da Saraceno e condotto con il Jaeger Lab dell’Università di Chicago, nasce dall’interazione tra onde sonore che oscillano a una frequenza-chiave, facendo levitare particelle di polvere cosmica.
Altri lavori includono le forme similgeodetiche in vetro soffiato anch’esse tipiche del lavoro di Saraceno, quadri che collegano l’immagine della tela di ragno alle connessioni neurali e alla struttura dell’universo, come pure alcuni semplici collage, su pannelli bianchi, di foglie e fiori destinati a cambiare colore, seccandosi, nel corso dell’esposizione. Silent Autumn — questo il titolo della mostra — durerà fino al 26 marzo.
Giusto di fronte alla Bonakdar Gallery, al numero 522, una delle sedi di Gagosian presenta cinque gigantesche opere di Michael Heizer — il celebre artista famoso per gli interventi di Land Art nei deserti della California e del Nevada — costituite da enormi blocchi di granito poggiati in apparente equilibrio precario su strutture in acciaio COR-TEN. Si tratta di opere realizzate tra il 2017 e il 2021, imponenti e molto belle; in una saletta attigua sono esposte invece cinque opere su carta del 2011, meno interessanti. In mostra fino al 16 aprile.
Risalendo per Chelsea, sulla 26ma Fergus McCaffrey propone (fino al 2 aprile) una interessante mostra tematica sull’interazione di pittura, performance e danza nell’opera di quattro artisti — due americani e due giapponesi — di generazioni diverse. Quattro i lavori esposti: una tela (Kyoka Kenro, 1982) di Kazuo Shiraga, già membro del gruppo Gutai, realizzata con il coinvolgimento totale del proprio corpo nell’atto della pittura; il risultato di una versione del 2008 della performance di Carolee Schneemann Up to and Including Her Limits, in cui l’artista disegnava con dei pastelli sulle pareti di un ambiente, sospesa in un’imbracatura da arborista — quelle usate nelle potature o gli abbattimenti degli alberi — e controllandone i movimenti con una corda (un video propone poi estratti dalle prime esecuzioni pubbliche del pezzo, tra il 1974 e il 1976).
C’è poi un portfolio di sette fotografie di Matthew Barney, ENVELOPA: Drawing Restraint 7 (Guillotine) (1993), che già dimostra la gestazione in atto del futuro, ipertrofico ciclo Cremaster, e infine un video di Min Tanaka realizzato durante il lockdown dovuto al Covid-19 e presentato per la prima volta a Tokyo nel 2021. Tanaka è il fondatore della Body Weather Farm, un centro di studio nel Giappone centrale che dal 1985 ha riunito una comunità di danzatori, dando vita a un movimento che «concepisce il corpo come una forza della natura: onnicentrato, antigerarchico e acutamente sensibile agli stimoli esterni», secondo le parole dello stesso Tanaka, oggi 77enne. Costumi, ephemera e manifesti di suoi spettacoli sono pure presenti in mostra.
Al 509 della W 27th St. molto interessante è anche la mostra alla Kasmin Gallery: Doesn’t The Paint Say It All?, una retrospettiva (aperta fino al 16 aprile) di Dorothea Tanning, l’artista nata nel 1910 e morta più che centenaria, che fu per molti anni compagna, e poi moglie, di Max Ernst, fino alla scomparsa di quest’ultimo.
Partita appunto dall’adesione al movimento surrealista, la Tanning sviluppò, a partire dagli anni Cinquanta, una pittura che, da immagini frammentate e prismatiche, evolse fino alle soglie dell’astrattismo. Le 18 opere in mostra — che vanno dal 1947 al 1987 — costituiscono un’esauriente antologia dell’opera matura di questa pittrice, con l’attenzione focalizzata soprattutto sulla rappresentazione del corpo femminile, allo stesso tempo esaltato e distorto.
Per concludere il giro a Chelsea, riallacciandoci al tema della performance, Sean Kelly (475 10th Avenue) propone fino al 16 aprile una personale di Marina Abramović che, oltre alla documentazione di tre azioni storiche (Rhythm 10, 1973; Freeing the memory, 1975; The Artist Is Present, 2010: bellissimo l’allestimento) e ad alcuni Transitory Objects, presenta la prima proiezione americana del film Seven Deaths.
Si tratta di una versione video — concepita come indipendente e originale — dello spettacolo 7 Deaths of Maria Callas, che nel settembre dell’anno passato ha debuttato all’Opera di Monaco di Baviera per poi essere replicato a Parigi e Atene (il prossimo 13-15 maggio sarà al Teatro San Carlo di Napoli). Sulla gestazione di questo spettacolo, la Abramović ha dichiarato in un’intervista: «Se qualcuno mi avesse detto vent’anni fa che avrei fatto “Opera” avrei detto: “Sei pazzo”. Voglio dire: io odio l’Opera. (…) Ma poi ero così interessata al fenomeno-Callas… Avevo solo quattordici anni quando la sentii cantare e fu così emozionante per me. Ho sempre voluto fare qualcosa con la Callas, ma volevo anche lavorare sull’idea che ogni eroina d’opera regolarmente muore con tutte quelle diverse morti: soffocamento, sul rogo, crepacuore, follia eccetera. (…) Ho iniziato a interessarmi a Maria Callas… e prima di tutto: lei è Sagittario, e io sono Sagittario. Un grande naso, e io ho un grande naso. Una madre molto difficile. Completamente orientata al successo, alla carriera, e alla disciplina, come ero io. E poi: il fatto che potesse amare così tanto, che potesse realmente morire di crepacuore, il che è quasi successo anche a me, e il mio lavoro mi ha salvato, mentre il suo non ha salvato lei».
Il film, della durata di poco più di un’ora, è composto da sette videoclip (scusatemi se li chiamo così: un possibile rimando è al film Aria del 1987) ognuno su un’aria di una sfortunata eroina interpretata dalla Callas: Violetta Valéry, Tosca, Desdemona, Cio Cio-san, Carmen, Lucia di Lammermoor, Norma. Versioni integrali degli inserti pensati per lo spettacolo originale, gli esiti per certi aspetti hanno un impatto fors’anche maggiore dello spettacolo stesso: se l’“Addio del passato” da La Traviata ha effettivamente un andamento un po’ da videoclip, e la parte da Lucia di Lammermoor sfoggia qualche eccesso balcan/barocco, l’“Ave Maria” dall’Otello e la Madama Butterfly in versione post-atomica sono decisamente potenti. Preziosa la partecipazione di Willem Dafoe, favoloso; il film è stato scritto in collaborazione con Petter Skavlan, e la regia è di Nabil Elderkin (che è, effettivamente, soprattutto un autore di videoclip musicali).
Ci trasferiamo ora nell’Upper East Side — l’altro polo principale delle gallerie d’arte di Manhattan — dove, alla Mnuchin Gallery (45 E 78th St.) ritroviamo, in collaborazione con Fergus McCaffrey, Kazuo Shiraga, qui messo a confronto con Willem de Kooning. Appartenenti a due generazioni diverse (de Kooning: 1904-1997; Shiraga: 1924-2008) e a due movimenti nati a distanza di una decina d’anni l’uno dall’altro, i due artisti condividono una comune poetica di “astrazione gestuale”, di cui questa mostra illustra molto bene similarità e differenze.
Le sciabolate ultramateriche di Shiraga vengono accostate all’equilibrio tra espressionismo astratto e informale delle tele di de Kooning degli anni Settanta (peraltro Untitled III del 1978 è una delle opere più belle di questo artista che chi scrive abbia mai visto). Le opere di Shiraga esposte vanno dal 1973 al 1997; di de Kooning invece l’opera più recente è del 1983: esempio dell’evoluzione verso un segno più stilizzato che caratterizzerà i suoi quadri degli anni Ottanta. La mostra chiuderà il 2 aprile.
Per concludere il giro di oggi, da Skarstedt (20 E 79th St.) è in corso, pure fino al 2 aprile, una bellissima mostra di Andy Warhol. Non è solo il livello museale delle opere esposte (in tutto 13) a caratterizzare l’esposizione: il dato più interessante è la presentazione di alcuni quadri degli anni Ottanta sorprendenti anche per chi abbia lungamente frequentato la pittura di Warhol.
Oltre a esempi delle celebri serie degli anni Sessanta e Settanta (Dollar Bills; Flowers; Self Portrait; Electric Chair; Ladies and Gentlemen) abbiamo infatti opere alquanto inedite come Eggs (1982) e i due Head (After Picasso) (1985), che testimoniano come la ricerca dell’artista di Pittsburgh sia continuata fino alla fine della sua vita. Altre opere notevoli degli anni Ottanta sono il particolare autoritratto The Shadow (1981), Four Multicolored Marilyns (Reversal series) (1979-1986) e Knives del 1981-82.
Giornata piena — e soddisfacente — per riconnettersi al mondo delle gallerie newyorkesi. In attesa dell’imminente apertura della Biennale del Whitney Museum (to be continued…).