E’ stata inaugurata, questo giovedì, al MAMbo di Bologna la Mostra “NO, NEON, NO CRY” che rimarrà aperta gino al 4 ottobre. Tra i più importanti appuntamenti artistici del 2022, l’esposizione bolognese conferma il ritorno di attenzione da parte delle istituzioni pubbliche verso gli artisti italiani della “Generazione anni ‘60” dopo che, nel 2018, l’esperienza di neon era stata protagonista di una mostra alla Galleria LaVeronica di Modica. Ne abbiamo parlato con Gino Gianuizzi che ha curato l’evento.
Roberto Brunelli: Ci parli di come è nata la mostra partendo dal nome che avete scelto?
Gino Gianuizzi: “Il titolo NO, NEON, NO CRY è deciso dopo che Nico Dockx ha proposto di realizzare una piccola scritta luminosa da installare sulla facciata del museo. Il progetto ha avuto una genealogia complessa, attraversando in una prima fase l’idea di mostra documentaria – il format della mostra-archivio era una forte tentazione – poi la richiesta di Lorenzo Balbi di costruire un progetto in cui fossero presenti anche opere ha messo in crisi questa ipotesi, mettendo in crisi l’idea stessa di mostra: come condensare un lavoro di trent’anni tramite una selezione di opere? come restituire quello che neon è stata nel bene e nel male? quello che è stato un processo continuo (e discontinuo), consapevole e disorganizzato, confuso e tagliente, balbettante spesso e ingenuo anche, utopico e idealista e sorpreso sia dalle attenzioni inattese come dalle critiche”.
R.B.: Ci sarà un catalogo?
G.G.: “Non ci sarà un catalogo, ma un libro, una raccolta di testi, testimonianze, anche questo discontinuo fra ricordi personali e saggi. Mi auguro che l’occasione della mostra possa diventare occasione per raccogliere le risorse economiche necessarie per realizzare un catalogo ragionato”.
R.B.: Per anni sei stato talmente identificato con il tuo spazio espositivo da venir chiamato Gino/neon quando si parlava di te. Tornerai a esserlo in occasione della mostra?
G.G.: “Ho dovuto tornare a vestire il costume da Gino/neon e ho immaginato qualcosa che rimanda all’idea di Wunderkammer: per tentare di restituire in un evento espositivo quello che neon ha prodotto credo che non sarebbebbe stato sincero e corrispondente alla realtà, operare una selezione di opere e di artisti. Sarebbe stato come dire che trenta anni di lavoro hanno distillato determinate eccellenz, e che il resto sono stati ‘effetti collaterali’. neon – nata senza un progetto, senza strategia, senza budget e senza obiettivi predeterminati – è stata soprattutto una comunità di artisti e un luogo di formazione per tutte le persone che hanno collaborato all’attività ed è stata anche una comunità per tutti i critici e curatori che hanno l’hanno frequentata per vedere le mostre e per conoscere gli artisti e che spesso hanno poi curato dei progetti nello spazio della galleria”.
R.B.: Una mostra che vuole essere una reale rappresentazione di cosa sono stati quegli anni e non un best of, una celebrazione dei tanti successi raggiunti dalla Galleria e da tanti suoi Artisti, dunque…
G.G: “Neon è stata un laboratorio permanente, in cui sono stati tentati esperimenti riusciti ed esperimenti meno riusciti. Lavorando sull’archivio risultano più di trecento mostre, senza contare tutte le attività collaterali e le collaborazioni e le iniziative esterne, e questo non è riducibile a una mostra best of. Dunque, mi convinco che la formula, il display espositivo (oggi si dice così, vero?) che può raccontare meglio questa storia piuttosto disordinata sia quello di una mostra ‘sgarbata’, tante opere che affolleranno la project room fino a saturare lo spazio, una densità che dovrebbe azzerare l’effetto white cube”.
R.B.: Quindi la mostra è un work in progress come lo è stata la galleria…
G.G.: “Ho delle immagini mentali di riferimento, certo non è una mostra che si poteva pianificare e allestire sulla carta, l’abbiamo fatta facendola. Le suggestioni sono Zabriskie Point, l’esplosione finale della villa nel deserto è una sequenza cinematografica che ho sempre sentito come un’opera a sé, e progenitrice di tanta videoarte; il Merzbau di Kurt Schwitters, costruzione e accumulo e riconoscimento di dada; un deposito, un magazzino, un solaio; When the Attitudes Become Form di Harald Szeeman, parentela non pensata scaturita da una conversazione telefonica con Ambra Stazzone”.
R.B.: Sempre per restare al Bologna e al Mambo mi torna alla mente la ISP ovvero l’Illustre Scultura Polimaterica esposta nel 2019 all’interno della Mostra “No, Oreste, No! Diari da un archivio impossibile” e realizzata con “gli scarti” donati da più di trenta artisti.
G.G.: “Ecco, la visione che si è costruita è quella di uno spazio abitato da opere in proliferazione, visivamente un accumulo in cui inoltrarsi con circospezione tentando di decifrare i singoli lavori e di ricondurre i lavori agli artisti. Una sorta di organismo complesso, una comunità che continua a dialogare a discutere a mettere in dubbio e a rafforzarsi nella contaminazione”.