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Orsetti di pezza, oggetti transizionali e del desiderio: sul collezionismo

del

Che siano orsetti di pezza, preziosi argenti, schede telefoniche ormai in disuso come reperti archeologi di un passato prossimo ma apparentemente remoto, o le figurine da incollare su un album, quasi tutti almeno una volta nella vita sperimentiamo, o abbiamo sperimentato, il brivido della ricerca, la soddisfazione dell’appropriazione, l’orgoglio e il sottile esibizionismo di chi può mostrare i propri personalissimi tesori. Tutti insomma, prima o poi, vestiamo i panni del collezionista, mostrando estrema dedizione o una distratta, ma non meno appassionata, attenzione verso potenziali acquisizioni.

L’esperienza del collezionismo, tanto differenziata nella scelta d’oggetto ma universale nei suoi tratti salienti, è un fenomeno familiare e diffuso ma in realtà estremamente complesso. Comprendere la passione del collezionare significa, infatti, addentrarsi in un labirinto di dinamiche eterogenee, che eccedono la semplice accumulazione di oggetti o il loro apprezzamento artistico ed estetico. Dietro alla figura del collezionista, solitamente descritto come un eccentrico monomaniaco, si intravedono infatti quelle pulsioni profonde che marcano il rapporto dell’uomo con l’oggetto e con la serialità a cui l’oggetto, in una collezione, appartiene; si agitano le dinamiche del desiderio che muove la scelta d’oggetto e la sua ripetizione; vive una forma mascherata feticismo – immaginario punto d’incontro tra l’oggetto e il desiderio – inteso come parafilia in senso lato; infine, il collezionista, specie quello di antiquariato, incarna il complesso rapporto tra passato e presente, e la sopravvivenza del primo nel secondo.

 

Le cose, gli oggetti

 

Naturale punto di partenza per una disamina su un fenomeno tanto complesso quale quello del collezionismo, è la nozione di oggetto, largamente intesa, da cui il rituale del collezionismo è inscindibile. Attenendosi infatti alla più tradizionale definizione, il collezionismo consiste nella raccolta di oggetti riconducibili, per tratti più o meno esplicitamente comuni, ad una stessa categoria, talvolta molto ristretta, talvolta estremamente ampia.

Da questa prima delimitazione di campo, appare immediatamente chiaro che l’oggetto è l’unità minima della collezione ma che, al contempo, questo non può essere considerato come ente isolato. Una tale considerazione, all’apparenza estremamente banale, sottolinea in realtà un aspetto essenziale del fenomeno in questione: l’importanza del singolo oggetto esclusivamente in relazione al sistema della collezione e alla sua serialità. Il ‘tesoro’ trovato ed acquisito assume valore agli occhi del collezionista se inserito all’interno di una categorizzazione astratta definita secondo parametri specifici – la collezione, appunto. Al contempo, sono i pezzi individuali, nella loro unicità, a permettere l’esistenza della molteplicità e dunque di quella condizione imprescindibile per poter parlare di collezione. Questa si configura dunque come un sistema organizzato da regole più o meno specifiche d’appartenenza e da singolarità che esistono in funzione della serialità, e viceversa.

All’interno di tale sistema il legame del collezionista con gli oggetti appartenenti alla collezione e la scelta di questi non sono legati – o per lo meno non sono esclusivamente legati – a qualità oggettive del prodotto ma piuttosto al rapporto della parte col tutto. Inoltre, l’inserimento dell’oggetto all’interno della collezione determina la de-contestualizzazione straniata rispetto alla pertinenza originaria della cosa in questione. Qualsiasi oggetto perde infatti, all’interno della serialità della collezione, la sua funzione originaria e qualsiasi tipo di utilità pratica, assumendo valore solamente per il suo costituirsi come rappresentante di una determinata categoria, all’interno di una ‘famiglia’ di rappresentanti portatori di caratteristiche similari. Come Walter Benjamin osserva nei suoi appunti sul collezionista in I ‘passages’ di Parigi: «Ciò che nel collezionismo è decisivo, è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa “completezza”? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione».

Karsten Bott, Uno di ognuno, 2011
Karsten Bott, Uno di ognuno, 2011

Dunque, all’interno della cornice della collezione, viene inaugurata una nuova esistenza: sottraendo l’oggetto dagli ingranaggi della funzionalità, della produttività, e spesso dall’oblio della successiva inservibilità, la collezione crea un nuova dimensione per la vita dell’oggetto, ossia un nuovo corso storico estraneo e ‘protetto’ rispetto al flusso principale.

Questa sorta di ‘seconda’ e potenzialmente illimitata vita che si offre all’oggetto eleggendolo a pezzo da collezione è riconducibile a ciò che Benjamin definisce «il sex appeal dell’inorganico», l’attrazione per l’inanimato. Sia nei casi di collezioni di indubbio valore artistico che in caso di collezioni in cui un valore commerciale o artistico è assente o comunque del tutto marginale, il collezionista instaura con gli oggetti una relazione peculiare e differente da qualsiasi altro tipo di investimento personale nei confronti di cose inanimate. Honoré de Balzac descrive suggestivamente tale rapporto tra collezionista ed oggetto affermando: «Io credo nell’intelligenza degli oggetti d’arte, essi riconoscono l’amatore, lo chiamano, gli fanno “pss-pss”». Anche il drammaturgo inglese Edward Knoblock racconta un fenomeno simile: «A forza di pratica riesce a guardare un negozio di antichità dall’altra parte della strada, e notare i pezzi autentici che “lo chiamano ad alta voce” tra mezzo il ciarpame e le imitazioni. Che soddisfazione redimere un oggetto in tutta la sua purezza dalla contaminazione di una compagnia bassa e degradante». La stessa sensazione di richiamo è descritta da Javier Marías nel suo romanzo Tutte le anime. Un professore madrileno di letteratura spagnola, sradicato dal contesto mediterraneo e espatriato ad Oxford, trova sollievo durante le interminabili «domeniche in Inghilterra […] esiliate dall’infinito’ peregrinando per botteghe di libri usati. Qui, afferma il protagonista, ‘sapevo imbattermi sempre in quello che cercavo, al punto di provare molte volte la sensazione che fossero i libri a cercare me».

Nel rovesciare i termini della questione proiettando sugli oggetti il richiamo verso l’amatore invece che sul collezionista l’abilità della ricerca, Balzac, Knoblock, e Marías fotografano, in poche righe, alcuni rilevanti aspetti di questo rapporto: la percezione dell’influenza inconscia che lega il collezionista agli oggetti che costui (o costei) si trova, come inconsapevolmente, a incontrare sul suo cammino; la personificazione delle cose che, all’interno dello spazio ‘magico-rituale’ della collezione e alla luce dell’atto del collezionare, assomigliano a interlocutori antropomorfi; come conseguenza, il rapporto umanizzato ed esclusivo, affettivo e a tratti, vedremo, erotizzato, che lega il collezionista alla sua serie e ad ogni elemento di questa.

 

Contemplare, possedere, sistemare

 

Il piacere che deriva dal collezionare, non coincide semplicemente con quello che l’estimatore dell’oggetto ricava dalla contemplazione del prodotto e dalla sua fruizione estetica ed artistica. Uno degli aspetti imprescindibili dell’atto del collezionare è che questo implica la necessità l’appropriazione dell’oggetto in questione, della sua sistemazione all’interno della serialità della collezione, in una sorta di tentativo di ordinare la pluralità delle cose del mondo da parte dell’occhio selettivo del collezionista. Il possesso degli oggetti, inoltre, permette un contatto fisico e visivo, spesso essenziale all’interno del rituale della collezione.

In termini psicoanalitici, il collezionista sviluppa nei confronti degli oggetti della propria collezione una relazione che presenta somiglianze con le parafilie sia del feticismo che del voyeurismo. Se collezionare implica possedere, possedere implica nella maggior parte dei casi un concreto piacere nel contatto fisico – e in senso lato erotizzato – con l’oggetto del desiderio che diviene infine parte della serie di oggetti posseduti. Benjamin descrive come il collezionista abbia bisogno di instaurare con gli oggetti un rapporto in cui la vista non è sufficiente per soddisfare il possessore ed in cui il godimento derivante dal toccare fisicamente l’oggetto gioca una parte fondamentale: «Proprietà e possesso appartengono all’ambito del tatto, e sono in certo modo in opposizione all’otticità. I collezionisti sono persone dall’istinto tattile».

Benché Benjamin veda nel collezionista una tendenza al piacere tattile piuttosto che visivo, Francesca Molfino e Alessandra Mottola Molfino nel loro testo sul collezionismo Il possesso della bellezza, spiegano tramite il voyeursimo il piacere che il collezionista, e in particolare quello d’antiquariato, trae dall’osservazione degli oggetti: «la collezione comporta un piacere voyeuristico, e ciò è ancora più ovvio quando riguarda cose appartenute a persone del passato […] c’è l’impressione di penetrare in una stanza che non ci appartiene […] vedere equivale alla a calmare l’angoscia che susciterebbe la scomparsa, assicurandoci che l’oggetto amato è interamente alla portata del nostro sguardo e ci riflette nella nostra identità».

 

Il Collezionismo come viaggio in una “terza dimensione”

 

Un tale rapporto sia fisico che visivo con gli oggetti può essere paragonato alla relazione che, per lo psicoanalista Donald Winnicott, il bambino instaura con il cosiddetto ‘oggetto transizionale’. Questo è un oggetto (un pupazzo, una coperta, il libro preferito, un capo di vestiario) da cui non il bambino non si separara mai. L’oggetto viene infatti investito di un valore affettivo particolare, in quanto funziona da ‘ammortizzatore’ nella fase di distacco dal rapporto simbiotico con la madre o con il genitore prediletto. Durante questa fase, il bambino prende gradualmente coscienza che il proprio corpo è un ente separato e differente rispetto al corpo della madre, così come riconosce che il mondo esterno è un insieme potenzialmente infinito di ‘altro da sé’. L’oggetto transizionale si pone allora come intermediario tra la fase di simbiosi con il corpo della madre e l’ingresso nell’esistenza individuale e soggettivizzata; allo stesso tempo esso costituisce un superamento della precedente fase orale in cui il bambino è rassicurato da oggetti che non sono ancora, però, propriamente riconosciuti come appartenenti alla sfera esterna, come il dito ‘poppato’ per addormentarsi, o il ciuccio. L’oggetto transazionale viene perciò a collocarsi in quella che Winnicott definisce ‘terza area’, detta anche ‘area intermedia’ o ‘spazio potenziale’, ossia una fase a metà tra l’illusione di fusionalità e di ‘essere uno’ con il mondo e la vera ‘relazione d’oggetto’. La funzione immaginaria che tale oggetto materiale assume, portando su di sé le tracce di uno stato perduto di piena soddisfazione originaria, sembra essere paragonabile al ruolo che, per il collezionista, assumono gli oggetti selezionati ed acquisiti per la collezione. Gli oggetti della serie, infatti, al di là di ogni considerazione sul loro valore effettivo, appartengono a quell’area di confine che si colloca tra il rapporto simbiotico e fusionale e l’effettiva relazione con un’alterità. Non a caso, infatti, la fase infantile, è frequentemente teatro di primi ed originali ‘collezionismi’, anche in soggetti che da adulti non sviluppano una particolare passione per l’accumulo di oggetti più o meno preziosi. In queste fasi, il bambino come spesso il collezionista, sceglie e conserva una serie di oggetti secondo un ordine e una razionalità propri, influenzato dall’investimento affettivo ed emotivo del processo transazionale. Questo diviene dunque il personalissimo fil rouge che nel collezionismo adulto si trasforma nella norma di selezione e ordinamento della serie. La prossimità dell’oggetto della collezione con l’oggetto tansizionale spiegherebbe dunque la relazione empatica, possessiva e talvolta feticista instaurata con l’oggetto, una sorta di medium cristallizzato tra una fase infantile di simbiotica relazione con il mondo esterno e la successiva presa di coscienza di una identità distinta. Per dirla con Winnicott, dunque, la collezione incarna una sorta di rimanenza, nell’età adulta, di un’istanza fluida che ‘non è me’ ma al contempo non è ancora ‘altro da me’.

La collezione di Antoine de Galbert alla Maison Rouge di Parigi
La collezione di Antoine de Galbert alla Maison Rouge di Parigi

È proprio l’appartenenza a una tale ‘terza dimensione’ che la collezione si costituisce come una sorta di cornice cerimoniale entro la quale gli oggetti assumono un plus-valore che esula dalla valutazione oggettiva e di mercato, anche nel caso di oggetti artistici di oggettivo pregio. Tale spazio, sottratto al flusso economico e alla valutazione estetica, si colloca in una dimensione differente, in alcune circostanze antitetica, rispetto a quella museale, spazio talvolta avversato dal collezionista. Il museo, infatti, si configura come non-luogo per gli oggetti, in cui manca un sistema rigidamente selezionato dall’individuo oltre che, aspetto fondamentale, la possibilità del possesso. All’esterno di quello ‘spazio medio’ in cui l’oggetto – insieme ai suoi simili prescelti – si trasforma in simbolo d’altro, il collezionista giunge perfino a perdere interesse verso gli oggetti. Capita dunque che l’amatore addirittura prenda le distanze da quello spazio neutro in cui la collezione si smembra e pare perciò smarrire il suo potere magico e la carica emotiva legata al possesso. ‘Il collezionismo’, infatti, è nato prima del museo. Le opere che sono state scelte dal collezionista assumono nella situazione museale il ruolo di icone, oggi usate in vario modo, ed io penso spesso che il museo segni in un certo modo la loro morte. La vita delle opere d’arte sussiste fino a quando sono desiderate e possedute, fino a quando non si spezza il filo che le lega, pur passando di mano, ai collezionisti che le hanno amate’.

In questa direzione, a proposito della sopravvivenza di una collezione al suo collezionista, Benjamin giunge addirittura a teorizzare che, per una collazione, la modalità più propria di trasmissione si avvicina all’idea di ereditarietà. Questa, infatti, concerne le caratteristiche principali della collezione: il possesso, l’investimento emotivo, l’idea di sopravvivenza e trasmissibilità: «È proprio un’eredità il sistema più valido per giungere a costruirsi una collezione. L’atteggiamento del collezionista verso gli oggetti della sua raccolta ha origine dal sentimento di obbligazione che lega il proprietario alla sua proprietà. Esso è dunque, nel senso più alto, l’atteggiamento dell’erede. Il titolo di nobiltà di una collezione sarà rappresentato sempre dalla sua eredibilità».

Appare dunque chiaro che una collezione risulta essere molto di più che la somma delle sue parti: ogni momento parziale incarna un significante che veicola una serie di significati molto più complessi e stratificati del valore oggettivo o della particolarità della serie cui appartiene. L’approccio museale, commerciale e qualsiasi tipo di intervento che tenda a dissolvere il ‘plus-valore’ emotivo ed immaginario della collezione ne tradisce l’intrinseca natura: l’interruzione della serie e la rottura della cornice cerimoniale e rituale dell’atto di scegliere e collezionare fa dell’oggetto un oggetto, sottraendogli l’essenza fondamentale all’interno del sistema, quella di detenere le caratteristiche dell’oggetto del desiderio.

 

Bibliografia

Balzac, Honoré de. Il cugino Pons. Trad. Paola Bellandi. Milano: Frassinelli, 1999.

Benjamin, Walter. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Trad. Enrico Filippini. Torino: Einaudi, 1982.

Benjamin, Walter. I ‘passages’ di Parigi. Trad. Renato Solmi. Torino: Einaudi, 2002.

Marías, Javier. Tutte le anime. Torino: Einaudi, 2006.

Molfino, Francesca e Alessandra Mottola Molfino. Il possesso della bellezza. Dialogo sui collezionisti d’arte. Torino: Umberto Allemandi & Co., 1997.

Winnicott, Donald. Gioco e realtà. Trad. Giorgio Adamo e Renata Gaddini. Roma: Armando Editore, 2006.

[infobox maintitle=”Nota dell’autore” subtitle=”Questo articolo, rivisitazione del mio precedente lavoro ‘La lista impensabile’ (pubblicato su Enthymema, VIII, 2013), è dedicato ad una collezionista appassionata: Linda De Dominicis” bg=”gray” color=”black” opacity=”off” space=”30″ link=”no link”]

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