Paolo Leonardo è nato a Torino nel 1973, città dove tuttora vive e lavora, nonché studio a cielo aperto di molti dei suoi lavori più famosi, da sempre incentrati sulla rappresentazione e la fotografia, manipolate mediante interventi soprattutto pittorici.
La sua è una ricerca improntata sull’interazione tra pittura e fotografia, incentrata sull’infinita riproducibilità di un certo tipo di rappresentazione, in particolare quella di natura pubblicitaria. I primi interventi degli anni Novanta hanno interessato i manifesti affissi in giro per la città, sui quali da subito Paolo ha iniziato un confronto creativo incentrato sulla volontà di ribaltare i significati e i codici di un sistema, quello delle immagini pubblicitarie. “Non sopportavo che l’orizzonte urbano della mia città fosse invaso da questi volti e corpi che rappresentavano l’uomo, ma allo stesso tempo lo banalizzavano stereotipandolo e riducendolo a merce. Una notte ho strappato due grandi manifesti un volto di uomo e uno di donna e dopo averli modificati con un intervento pittorico, di stile espressionista, li ho ricollocati abusivamente negli espositori stradali pubblicitari.“
Da allora, i suoi interventi urbani si sono susseguiti per oltre un ventennio non solo a Torino ma anche a Milano, Nizza, Bruxelles, Parigi. “L’intento dei miei interventi pittorici era quello di rimettere al centro la rappresentazione dell’uomo e del corpo attingendo all’immenso archivio delle immagini pubblicitarie che in qualche modo avevano e hanno la forza di rappresentare l’uomo nella società contemporanea con i suoi stereotipi, le sue miserie, con i suoi vuoti.”
Project Marta Monitoring Art Archive – un servizio che, a partire dall’intervista con artista, realizza una scheda tecnica completa di tutte le informazioni utili a conoscere in profondità le opere d’arte – ha raccolto tecniche e materiali per diverse tipologie di lavori di Paolo, con l’obiettivo di toccare tutte le sue produzioni più importanti, ed oggi vuole condividere l’intervista realizzata con il supporto di Angelo Nese, critico d’arte, per Senza Titolo, opera presa a modello per parlare della serie delle Chine Rosse nel 2010, realizzata con una tecnica mista su stampa, di dimensioni 70 x 100 cm.
Le opere di Paolo Leonardo sono trattate dalla Galleria Alessandro Bagnai di Firenze e dalla Galleria Davide Paludetto di Torino.
Benedetta Bodo di Albaretto: Senza titolo fa parte di una serie di lavori realizzati su una base fotografica coperta di china rossa. Anche in questo caso come in molti tuoi lavori, si tratta di immagini tratte da fotografie che sembrano parte di una produzione più privata, intima, senza tempo. Si tratta di un’evoluzione stilistica rispetto al tuo interesse nei confronti di quella dimensione sospesa che hai già evocato in serie precedenti, oppure è una ricerca differente?
Paolo Leonardo: «Nel caso della serie delle Chine rosse, questi lavori sono legati al cinema ed a vedute più urbane che non legate a figure e personaggi… la prima volta che ho inserito la figura ed il paesaggio insieme è stato nel 2005, quando ho realizzato una serie incentrata sul rosso ed il nero, poi c’è stata un’altra personale intitolata Riflessioni sul cinema alla galleria Bagnai nel 2008. All’origine del binomio rosso e nero che popola la scena c’è una visione legata ad un ricordo della caramella Rossana, qualcosa di inconscio che è emerso dai miei ricordi di bambino. Stavo ore da bambino a guardare il mondo attraverso la carta rossa di quelle caramelle, e mi sembrava di essere in un’altra realtà, in un sogno… A livello materico, la pellicola che permette questa virata di rosso e nero è data dalla china, stesa con una spugna a creare un filtro tra occhio e immagine.
L’intera mostra da Bagnai ha richiesto una ricerca di mesi, durante i quali ho analizzato e raccolto molto materiale, frame di film da tutti amici miei registi, da Daniele Gaglianone a Alberto Momo, ma non solo, anche da libri, cataloghi, riviste di cinema dagli anni ’50 ai ’70…Tra tutto questo materiale ho selezionato le immagini da utilizzare, sempre secondo quel solito discorso alla Barthes per cui ho cercato qualcosa che mi colpisse, senza neanche sapere di che film si trattasse, lavorando a livello empatico. La mostra era incentrata in particolare sul discorso dello stacco cinematografico, perciò ho inserito immagini di film diversi, mescolandoli tra loro e creando dei dittici, dei trittici o dei polittici, per creare delle micronarrazioni che in realtà parlano di che cosa succede – e di cosa non si vede – tra uno stacco cinematografico ed un altro. Ho realizzato questa specie di film con la pittura, ho lavorato sull’intervallo, su questa dimensione data da due immagini fotografiche che in partenza erano due stacchi cinematografici, creando delle microstorie evocative ma mai narrative. In più la cosa divertente è che io non conosco i film da cui provengono queste fotografie, non conosco neanche tutte le immagini che ho rubato, mentre c’è chi ne può riconoscere la provenienza».
B.B.: Hai scelto – come spesso nei tuoi lavori – una gamma cromatica minimale, in questo caso il rosso e il nero, in un accostamento che inverte spesso il rapporto tra positivo e negativo, come stessimo osservando una lastra fotografica al contrario. In che modo hai affrontato la sperimentazione di queste stesure di inchiostro?
Paolo Leonardo: «All’inizio e fino al 1999 ho sempre utilizzato le bombolette spray alla nitro, alcol etilico e pagliette abrasive di metallo che mi servivano per fondere l’inchiostro della stampa con il colore. Avevo uno studio, tra l’altro sotto terra, ed utilizzavo come protezione una maschera con i filtri bicomponenti facciali e una tuta, perché quando lavoravo si creava una camera a gas veramente molto salubre! [… ] Ad un certo punto, per ragioni soprattutto di salute, ho cambiato tecnica totalmente: non più colori a solvente ma colori all’acqua, quindi chine, acrilici e smalti all’acqua […] per fortuna ho scoperto una pittura più liquida, ed utilizzando il pennello invece della bomboletta mi sono trovato anche meglio e quindi è stato un passo avanti che mi ha portato a provare nuovi materiali».
B.B.: Puoi descrivermi le caratteristiche e le procedure dei materiali che utilizzi?
Paolo Leonardo: «Come ti dicevo, mi sono dovuto reinventare totalmente un’altra tecnica, sono andato in crisi per qualche mese perché pensavo che la prima fosse perfetta, invece per fortuna ho elaborato un’altra procedura. Non ho delle proporzioni, lavoro in automatico, a terra, con una certa quantità di pigmento diluito in acqua e steso a pennello o versato direttamente da piccoli contenitori, per sfruttare la casualità di una pittura molto liquida, che necessita di un lavoro d’impatto, istintivo. Nel caso delle Chine, dopo aver selezionato le immagini – come con qualsiasi altro mio lavoro – le ho fatte stampare delle dimensioni desiderate e poi vi ho dipinto sopra prima con il colore nero, a seguire la stesura di china mediante spugne. I tempi di asciugatura sono abbastanza lunghi, almeno due-tre giorni, ma meno di quanto non richiedano altri lavori».
B.B.: Parliamo di mutevolezza dei materiali nel tempo: è stata considerata oppure no al momento della realizzazione delle Chine?
Paolo Leonardo: «In parte sì, ma l’opera è questa, questa la sua natura. Ad esempio, io non consiglio ai collezionisti di esporre le opere come le allestisco io per le mostre, ovvero a muro con due chiodi e basta. L’esposizione temporanea è una cosa, ma chi compra un’opera deve valutare di intelarla o metterla in cornice oppure in una teca di plexiglas, quello che preferiscono, perché trattandosi di carta con il tempo si danneggia, ingiallisce, si arriccia, si strappa. La china poi abbiamo visto che, se esposta alla luce, sbiadisce, il rosso perde d’intensità e diventa arancione».
B.B.: In generale, pensando ad eventuali future problematiche dovute ad invecchiamento oppure a cause accidentali, hai considerato in quale modo si potrebbe intervenire, se vorresti essere contattato in prima persona?
Paolo Leonardo: «Non posso dire di essere felice se i collezionisti si rivolgono a me per risolvere un problema, trovo più giusto che sia coinvolta una persona che è del mestiere, che sia un restauratore. Io al limite posso dare dei consigli oppure il contatto di un mio referente, in questo caso ad esempio la restauratrice Gloria Valentini, che ha analizzato il mio lavoro nel dettaglio per la schedatura».