A volte sembra di riuscire a cogliere un’impressione della Firenze che fu di Bernard Berenson, tra la fine del secolo lungo e la prima metà di quello breve. Quella degli American e British Florentins – gli anglobeceri, com’erano affettuosamente chiamati in città – dei connoisseurs, dei grandi collezionistie della corte di Villa I Tatti, sulla collina dietro Coverciano.
Qualche sprazzo mi è parso di trovarne lo scorso fine settimana a Palazzo Corsini al Parione, bell’edificio secentesco affacciato sull’Arno, in cui si è tenuta la trentaduesima Biennale Internazionale dell’Antiquariato, evento che richiama attorno a sé i maggiori antiquari italiani. Edizione che riavvia il contachilometri della manifestazione dopo il buco nero apertosi nel marzo 2020, che ha fatto saltare la prefissata edizione 2021.
Più di settanta spazi espositivi dedicati ad altrettante gallerie, ricavati tra le stanze del piano terra e quelle del piano nobile, in un percorso immersivo davvero coinvolgente, tra centinaia di opere di elevatissima qualità.
Ogni galleria con il suo pezzo forte, ogni tipologia di oggetto molto ben rappresentata, a partire dai cosiddetti fondi oro, tra i quali segnalo la bellissima coppia di dolenti presentata dalla Salamon di Milano: una Madonna e un San Giovanni a mezzo busto attribuiti al trecentesco bolognese Lippo di Dalmasio.
La scultura, poi, spaziava dal bronzo del gruppo di soldati di Arturo Martini – bozzetto per un monumento mai realizzato presentato dalla Walter Padovani – al marmo della mezza lunetta di Francesco Laurana, contenente un committente in adorazione di una moderna Madonna metamorfica di Nicola Samorì, accostamento proposto dalla Porcini di Napoli.
Anche la scultura lignea aveva il suo quid, con esemplari impressionanti come i due ladroni della Longari, quasi tronchi di legno scortecciato con labili tracce di policromia, molto evocativi.
Numerosi anche i disegni, tra i quali mi è molto piaciuto quello di Vincenzo Gemito che ritrae la figlia Giuseppina intirizzita durante il freddo inverno del 1909, presso la Carlo Virgilio. Dalla Napoli di Gemito alla Venezia della regina dei ritratti: Rosalba Carriera con la sua peculiare tecnica a pastello, in un doppio ritratto femminile presso Brun.
Mi sono commosso, poi, trovando in mostra dei busti di Bartolomeo Cavaceppi, scultore che fu – a detta di Alessandro Conti – anche il più importante restauratore del Settecento, amico e uomo di fiducia di Winckelmann, con cui riordinò la collezione di marmi Albani inventando il Neoclassicismo, come mi azzardai a dire in un articolo di quasi un anno fa.
Un momento per distrarsi e rifiatare dall’impegnativo percorso espositivo, era poi offerto dalla bellezza barocca del palazzo e dalla splendida grotta artificiale, con le scimmie giocherellone dipinte e la fontana delle ninfe. Cogliendo di sfuggita un frammento di conversazione, ho sentito dire che in passato qui era ospitato un locale notturno molto frequentato, Il pozzo di Beatrice. Sarà vero?
Tra begli oggetti di mobilia, qualcosa di glittica, qualche pezzo di gioielleria, la presenza più consistente era comunque la pittura.
Di tutti i dipinti, due per me bellissimi: la solatia villa toscana di Telemaco Signorini – presentata da Parronchi – e il bozzetto di Giambattista Tiepolo portato da Gallo, con la scena biblica della Submersio Pharaonis; un olio su tela largo meno di un metro, talmente bello che il mio cervello lo vedeva in automatico affrescato su scala monumentale in qualche soffitto settecentesco.
La Biennale, insomma, ha avuto qualcosa da dare anche a un visitatore senza portafoglio com’ero io. Unica nota triste, la disaffezione verso l’acquisto di libri, confessatami a mezza voce da un libraio a cui ho comprato un volumetto su Proust e Berenson.
Il Berenson la cui Firenze mi è parso di vedere nell’amore per le belle cose che si respira in questa città in modo peculiare, nella quale ancora qualche American o British Florentins si sforza di parlare quell’italiano bamboleggiante, come lo chiamava Federico Zeri.