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Scars – towards ourselves: intervista a Giovanni Ozzola

del

L’idea di questa intervista nasce per me dall’opera presentata da Giovanni Ozzola (Firenze, 1982) quest’anno all’Arsenale di Venezia. Le antiche rotte delle navi che viaggiavano alla scoperta di nuovi territori, si sovrappongono all’idea del segno, della cicatrice sulla pelle, che è insieme memoria del dolore e sua guarigione.

Sono partita da qui, in questa intervista, dove l’opera è diventata l’occasione di approfondire un percorso artistico come quello di Ozzola: denso, pieno di sfumature e ricchissimo di senso.

Maria Cristina Strati: Giovanni, ti ringrazio tantissimo per aver accettato questa intervista. Stimo molto il tuo lavoro e in particolare sono rimasta colpita dall’opera che hai presentato a Venezia, alla mostra De Rerum natura, curata da Mara Sartore. Vorrei cominciare da qui, se vuoi, anche perché trovo quell’opera molto attuale…

Giovanni Ozzola: “Sì, io partirei proprio dal titolo (Scars – towards ourselves), forse, perché c’è questa idea del cammino, della cicatrice. Adoro James Hillman e Martin Buber. Il cammino dell’uomo di Buber per me è un riferimento, mi ha salvato. Tu conta che io ho fatto tutto da autodidatta: facevo “forca” a scuola, come si dice a Firenze, per andare a sentire le lezioni di filosofia all’università.

Poi ho interrotto gli studi, ma ho continuato in maniera addirittura più densa, sempre come letture, anche se non ho delle basi. Però L’ Apologia di Socrate o il Fedro, li ho letti con passione. Mi addormentavo con quei libri fra le mani e mi svegliavo con il desiderio di arrivare a sera per poter andare avanti e rileggere ancora. Non è stata un’imposizione scolastica.

Giovanni Ozzola (Firenze 1982)

Per me la cicatrice, questo segno che marca la prova, racconta che sei riuscito a sopravvivere a qualche cosa: ha in sé l’idea del ricordo, una cicatrice in un inconscio collettivo. Ci sono dei momenti, nella storia delle persone, in cui ciascuno di noi è chiamato a compiere il proprio pezzettino della catena.

E poi ci sono delle persone che, per una serie di ragioni, oltre a compiere un pezzo della propria catena, fanno anche qualcosa per tutti. Quelle rotte lì, nell’opera, sono le linee del viaggio di un esploratore. Ho provato a raccogliere tutto il materiale possibile, in tutte le culture e in tutti i documenti storici di cui abbiamo traccia, a proposito degli esploratori che hanno viaggiato verso l’ignoto.

Per me l’ignoto è il domani, ha a che fare con l’imparare a fronteggiare le nostre paure. Gli esploratori sono state persone che hanno spinto piano piano l’ignoto lontano da noi. Prima si condivideva uno spazio con l’ignoto, le persone avevano dei luoghi e condividevano il loro tempo e il loro spazio con qualcosa di sconosciuto.

Ma è trasversale a tutte le culture questo bisogno di spingere l’ignoto lontano da noi, in modo da fronteggiare le paure e camminare verso quel simbolo così forte che è l’orizzonte, a cui non si arriva mai. Questo tema è sempre presente nelle mie opere, mentre la figura umana è totalmente assente, perché è rappresentata piuttosto da chi guarda l’opera.

Un’altra cosa importante è il metodo con cui ho fatto il lavoro: l’incisione, qui, è una sorta di graffio, di cicatrice, simile ad un’incisione rupestre. È il bisogno ancestrale di segnare il nostro passaggio come individui sulla terra, marcare la nostra individualità. Il segno, nel lavoro, viene fatto sull’ardesia, una pietra sedimentaria che è un po’ come la memoria. Strato dopo strato, memoria dopo memoria, quel graffio, quell’incisione rimane, segna: è appunto una cicatrice.

Giovanni Ozzola – At night, you and me 2021, Shine ink color, tempered glass, 250 x 361 cm. Photo: Dong Lin

Il nero dell’ardesia rimanda invece all’inconscio collettivo, all’universo, ma anche al mare. A me piace molto andare a vela: viaggiare di notte è completamente diverso che viaggiare di giorno. È appassionante, perché si è costretti a confrontarsi con le proprie paure costantemente. C’è questa relazione tra un desiderio e una paura. Il desiderio fondamentalmente è vita, è la tensione a cercare di diventare ciò che veramente sei. È la paura che è mortifera e non ti permette di diventare te stesso.

In quel lavoro ci sono tutte queste rotte, una sopra sopra l’altra. Le ho collezionate, le ho cercate nei musei, collezionando tutto il materiale che va da 3000 a C fino al 1926, mi sembra, quando fu scoperta l’ultima isola nel Pacifico. Le varie rotte che si sovrappongono finiscono per formare una mappa. Una mappa che è profondamente umana, che riguarda tutti noi come umanità. Non contano le differenze tra est, ovest, tu, io.

L’intersecarsi delle varie rotte racconta il modo in cui, come umanità, abbiamo mappato il mondo, come abbiamo spinto l’ignoto lontano da noi, anzi, oramai fuori dalla terra e ora il nostro nuovo orizzonte è l’universo. Ma poi a me interessa riportare tutto questo alla storia individuale: ognuno di noi credo dovrebbe cercare di conoscersi, di mapparsi, di capirsi, di prendere coscienza di sé. Per poi guardare fuori, intorno a sé”.

Giovanni Ozzola, Traces of wind, 2022. Vedute della mostra Galleria Continua, Beijing. Photo by: Dong Lin

M.C.S.: Come dice Buber…

G.O.: “Sì, certo. C’è un percorso dentro sé stessi, ma è necessario non prendersi come fine di tutto il percorso, bensì guardare fuori, agli altri. Credo che quando si rafforza il singolo e metti più singoli insieme hai un gruppo. Ma se l’individuo non ha coscienza di sé, se non hai un singolo, alla fine non hai più un gruppo, ma un gregge.

Per me tutto parte dall’individuo, dalla consapevolezza di sé stessi, da noi, ma non in chiave individualistica. Perciò, in quel lavoro, la geografia fisica è totalmente assente, si vede per assenza. Ma quello che si vede è la nostra geografia, la narrazione di come ci siamo mossi nel corso dei secoli, come gruppo e come anima”.

M.C.S.: Questo è molto bello. Vuol dire che il fine è fuori di noi, ma nello stesso tempo è cercando noi stessi che lo troviamo, e troviamo gli altri…

G.O.: “Sì, credo che cercando di diventare noi stessi abbiamo anche la capacità di vedere l’altro. Se no, per paura, per incapacità e mancanza di coscienza di sé stessi e della propria individualità finiamo per aver paura del diverso. Se io so chi sono, che tu sia bianco, nero, giallo, che ti piaccia questo o quell’altro, io non mi sento minacciato, rimango io. Il problema nasce quando tu con il tuo essere mi turbi, perché io magari non ho un centro e non conosco me stesso, e fondamentalmente tu allora rappresenti una mia paura…”.

M.C.S.: Mi fai venire in mente un libro che ho letto di Y. Mounk che parla del grande esperimento della società multietnica, del tentativo delle grandi democrazie di far vivere insieme armoniosamente gruppi diversi, nel rispetto delle differenze reciproche, all’interno di una visione democratica dei rapporti tra persone e non una visione populista. Ritornando a quello che dicevi prima, in una prospettiva populista il popolo è visto come gregge, mentre quando il singolo conosce sé stesso e si realizza come individuo, impara anche a relazionarsi proficuamente con gli altri, pure se sono diversi per cultura, religione o etnie. C’è una libertà che viene dall’individualità ben coltivata e non dal suo annullamento.

G.O.: “Certo, poi c’è sempre quella linea che sono le leggi, stando sulla politica, c’è una legge e si applica, nel senso che c’è tutto un grande oscillare tra idee e paure diverse, paura di far rispettare una cosa o metterla in discussione… C’è veramente un mondo tutto bloccato dalle paure, legato anche a cose che bisogna dire anche se non ci si crede, oppure cose che andrebbero dette, ma che non si possono dire…”.

Giovanni Ozzola, Traces of wind, 2022. Vedute della mostra Galleria Continua, Beijing. Photo by: Dong Lin

M.C.S.: Ma fortunatamente le opere d’arte aprono sempre prospettive infinite! Il viaggio verso sé stessi permette di conoscere e accettare l’altro…

G.O.: “Proprio così. Perciò nei miei lavori l’essere umano, che è il visitatore, diventa l’unità di misura del paesaggio. È come quando Hillman parla di mito di Psiche, nel Fedro di Platone, e dice che noi siamo dentro la psiche, ne facciamo parte. C’è questa rappresentazione in cui sei dentro a un tutto…”.

M.C.S.: Protagora diceva che “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e quelle che non sono in quanto non sono”. L’idea di ritrovare il senso attraverso la strada tracciata dalle antiche rotte delle navi è qualcosa di profondamente poetico e intensissimo, che davvero ci dice qualcosa di profondo. Perciò non mi ha sorpreso che Buber fosse tra i tuoi riferimenti…

G.O.: “Sì, e questi temi sono tanto più importanti in questo momento…. Oggi il mondo si è ristretto. Il mio mondo una volta era più grande oggi, dopo il covid è diventato più piccolo. Prima avevo un’altra percezione del mondo, del mio spazio. Andavo tre quattro volte l’anno in Asia, in sud Africa, ero sempre in viaggio e in aereo. Oggi tutto è cambiato, anche nelle relazioni umane. Per esempio non vedo più i miei amici cinesi, i miei contatti orientali. Se penso al mio inverno è limitato all’Europa…”.

M.C.S.: Questo anche a causa degli eventi geopolitici che si sono verificati…

G.O.: “Certo, sono successe e stanno succedendo cose pazzesche e ora pensare, come diceva Hillman, che siamo uno, come umanità, non è banale, per me. È vero che nel lavoro ci sono più tracce e scritti di viaggi e rotte di navi, conquistatori e storie di scoperte europee, ma fermarsi a questo è veramente come guardare il dito e non la stella… La mappa è nostra, racconta un bisogno che è di tutte le culture, qualcosa che ci riguarda tutti come umanità. Siamo vicini, fratelli, anche se in questo periodo storico ci stiamo di nuovo dividendo tra nazioni e sovranismi… Ci sono memorie e fantasie condivise, sempre. Ognuno si sente diverso, ma in realtà l’umanità è una sola, siamo un unico gruppo e una sola umanità”.

Giovanni Ozzola, Traces of wind, 2022. Vedute della mostra Galleria Continua, Beijing. Photo by: Dong Lin

M.C.S.: Quello che dici è poetico, ma anche etico. Ci dice qualcosa della nostra vita personale, oltre che collettiva. Nella fine c’è l’inizio, come recita il titolo di un libro del teologo tedesco Jürgen Moltmann… Come dire che l’inizio si vede veramente solo alla fine del percorso, solo alla fine del cammino si vede chi sei. E se la fine scopre il senso dell’inizio, allora tutto è sempre aperto verso il futuro, è pervaso di un entusiasmo profondo… In più tu vedi queste rotte come cicatrici, quindi c’è anche il senso della guarigione…

G.O.: “Sì, è l’dea del superamento della prova, o se vuoi la prova di un superamento… Dice che qualcosa che prima era sospeso ora ha trovato una soluzione…”.

M.C.S.: È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di essere stato felice, cantava Samuele Bersani. Ma questi temi ritornano anche in altri tuoi lavori… Per esempio, parliamo della tua mostra a Pechino, inaugurata a gennaio…

G.O.: “Quella è una mostra sull’idea delle tracce del vento. Tu hai citato Samuele Bersani e io lì in un’opera cito De Gregori, quando dice “e qualcosa rimane delle pagine chiare…”, pensando alla luce e all’oscurità, alla dialettica tra luce e ombra. Le tracce del vento sono qualcosa che succede… E poi rimane. Là la Galleria Continua ha uno spazio enorme, 1200 metri quadrati, e io in quello spazio creo una dialettica di giorno e notte, una sorta di respiro. Hai presente quelle giare con dentro le piante che diventano un sistema a sé stante, una sorta di microcosmo o microsistema vitale, un sistema indipendente? Avevo in mente qualcosa del genere.

Noi camminiamo nello spazio espositivo, passiamo attraverso delle epifanie, attraverso dei momenti di leggera chiarezza, di intuizione, dove per un momento intuisci magari una verità, e passi da un’opera all’altra, da un inizio all’altro… Ogni volta non sai mai se è una fine o un inizio, se è un tramonto o un’alba, come dicevamo prima, c’è questo continuo chiudersi ed aprirsi di nuovo. Si tratta di lavori diversi tra loro. È stata una cosa abbastanza strana.

Nelle opere si sperimenta una perdita dell’individualità dentro un orizzonte infinito, ma anche qualcos’altro. Perché, come in tutti i miei bunker, poi c’è tutta una serie di contrasti, anche tra mare e cielo e a livello cromatico, in alcune occasioni.

La mostra parte da una grandissima sala, dove c’è una parete di 18 metri per 21, che altro non rappresenta che uno dei miei bunker. Ci sono graffiti sui lati e c’è l’orizzonte, questo simbolo potentissimo. Ci troviamo in un luogo chiuso, eppure la sensazione è molto diversa… Dall’esterno, tu entri in una galleria, ti aspetti di sentirti in un luogo chiuso e invece hai questa apertura su un luogo altro. Ti trovi di fronte al mare, di fronte all’orizzonte. Questo è un simbolo che è quasi un sogno. L’allestimento aveva una dimensione naturale, e creava perciò nei visitatori un senso di spaesamento rispetto allo spazio. Esci dalla città… Tu sei a Pechino, che è un mostro di asfalto, e di colpo ti ritrovi di fronte al mare. È questa l’esperienza del paesaggio in cui perdi individualità.

Giovanni Ozzola, Traces of wind, 2022. Vedute della mostra Galleria Continua, Beijing. Photo by: Dong Lin

Poi nello spazio ci sono anche delle frasi in neon. In un altro lavoro il neon dice una frase in spagnolo che tradotta in italiano dice: “la tua bocca è la mia misura.” La frase è rivolta da me allo spettatore, perché, dopo la dispersione, la perdita di riferimenti spaziali, volevo riportare lo spettatore in un punto preciso. In quel punto lì. Nel punto preciso del corpo e dell’individualità, per poi mettersi in gioco rispetto all’altro, e all’opera d’arte. La tua bocca diventa la mia unità di misura, vuol dire che il tuo essere, il tuo verbo, la tua parola, in altre parole tu, diventi l’unità di misura della mostra, di tutto quello che vedrai.

Non è un lavoro estremamente facile. Molti lo leggono superficialmente, si fermano alla prima vernice del significato e lo vedono come qualcosa di romantico. Certo, c’è anche quella leggerezza, il riferimento a una relazione di amore, di attrazione. Ma per me il lavoro ha un valore un po’ più denso, riporta proprio all’individualità, al tuo pensiero, al logos. Tu diventi il metro con cui fare esperienza di quello che hai intorno. Mentre nell’altro lavoro al neon c’è quell’altra frase che dicevo prima, in cinese…. E qualcosa rimane. E tra le due opere c’è un rapporto”.

M.C.S.: Per te è sempre molto importante la presenza dello spettatore…

G.O.: “Sì, le opere sono belle con le persone che le abitano. E in questo caso è andata molto bene. Ci sono state mille persone al giorno nei weekend, ha avuto molto successo, c’è stato molto general public, centinaia di persone al giorno con la fila fuori dal museo come per la Kusama…”.

M.C.S.: Non mi stupisce. Il tuo lavoro va a smuovere delle corde profonde, qualcosa che tocca tutti e non solo gli addetti ai lavori…

G.O.: “Ma nella mostra ci sono anche altri lavori. Per me sai, i lavori sono parole compiute, perciò se li metti l’uno accanto all’altro crei qualcos’altro, una sorta di discorso o di poesia. Per esempio, per le scale tutto il soffitto è una stella. È un omaggio a Giotto, un cielo stellato che ho fotografato durante il lockdown qui nell’isola di Tenerife, dove si vede davvero la volta celeste perché siamo a 3800 metri sul livello del mare. È una foto quasi scientifica, che però sottolinea il rapporto con la storia dell’arte e della pittura, ma è anche il tentativo di mostrare la relazione tra l’io, lo spazio che occupa il mio corpo e il cosmo intero. C’è la dialettica tra luce e buio, sconosciuto e stella guida, noi dove ci troviamo e la possibilità di andare verso la luce, orientando il nostro cammino. Il tema è ancora quello delle rotte delle navi. Sono lavori fatti su vetro con una tecnica particolare, hanno due lati da cui possono essere guardati, perciò c’è anche un dentro e un fuori: è spaesante”.

Giovanni Ozzola – Red curtain 2021, Shine ink color, tempered glass, 250 x 366 cm. Photo: Dong Lin

M.C.S.: C’è anche una dialettica tra aperto chiuso, luce buio, artificiale e naturale…

G.O.: “Sì, perché per me la cosa importante è sempre andare verso un’armonia, in questo sguardo. Questi lavori sono bunker, cioè luoghi dove non potresti vivere, perché saresti schiacciato dai segni, dalla memoria. Non potresti sostare in questi posti se non ci fosse la finestra, aperta su uno spazio infinito. Eppure anche questo orizzonte infinito può essere pauroso. Saresti in una sorta di perenne indistinto, se non avessi il bunker che ti protegge.

Qui è la dialettica, e anche l’armonia. E va letto su più livelli. Voglio dire che tutte le tue cicatrici, le tue rughe, tutto ciò che hai, da un lato ti protegge, ma dall’altro rischia di chiuderti. È un po’ come stare dentro una scatola cranica, saremmo schiacciati se non ci fosse ciò che viene dall’altro, il desiderio, la forza, la vita. Eppure tutto ciò che è segno, cicatrice, memoria, scatola cranica, è anche quello che ti dà una forma, una struttura: non puoi vivere senza l’uno e senza l’altro dei due termini, scatola cranica e infinito, hai bisogno di un’armonia.

Perciò dico che tuta la mostra è una sorta di microcosmo, perché in tutti questi contrasti si crea una linea di armonia o, meglio, di bilanciamento, dove l’assenza di una presenza umana viene fullfilled, colmato, da chi guarda. E qui si ritorna a quello che dicevamo…”.

M.C.S.: Mi ha colpito quando dicevi che la tua bocca è la mia misura, nel senso della misura della mostra, delle opere esposte. Lo spettatore è la misura della mostra, di tutto ciò che vede. È lui o lei che porta un bilanciamento…

G.O.: “Vero, ci sono delle forze e lo spettatore diventa il fulcro”.

M.C.S.: Tutto ciò è bellissimo. Stai lavorando a nuovi progetti, in questo momento?

G.O.: “Ci sono molti progetti in lavorazione, ma ancora non ne posso parlare. Sto però pensando a un progetto che prende spunto da San Mao. Ma dal mio punto di vista non conta nulla né che sia una donna, né che sia cinese. San Mao è un personaggio molto popolare in Cina. Lei è stata nelle Canarie e tutti hanno viaggiato con la fantasia con i suoi scritti. Lei è un essere umano che ha rotto tutte i clichè e che ha sempre viaggiato verso l’orizzonte. Vorrei rendere in un video il suo viaggio, che dal Sahara la portò alle Canarie. Un essere umano che continua a camminare per sempre, verso quel luogo dove non si tornerà mai…”.

M.C.S.: Così torniamo a Buber, alla fine c’è l’inizio!

G.O.: “Proprio così. Poi ci sono tanti altri progetti, ma ancora sono in embrione. Dovremmo partire dal titolo

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.

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