Problemi conservativi delle opere di Anselm Kiefer
La grande mostra del tedesco Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi ha dato la possibilità a tanti, come me, di conoscere meglio l’opera di un artista tra i più apprezzati del nostro tempo e che definirei totale: pittore, scultore e, a suo modo, architetto.
L’impressione che se ne può avere – e io l’ho avuta – è quella di una visione dell’arte, anzi, di una visione del mondo attraverso l’arte, sublime e assoluta, vertiginosa come un trattato seicentesco, sia il Sidereus Nuncius di Galilei o il Mundus Subterraneus di Athanasius Kircher.
Arte che sopravvive al naufragio della storia umana – Kiefer nacque in Germania nel 1945! -, stratificando e così salvando memorie e significati apparentemente distrutti: Kiefer sembra aver agito come chi, in seguito a un lutto, si dedica a estrarre le rovine di un’apocalisse inflitta agli esseri umani, alludendo alla concezione del passato come un immenso cumulo di rovine sparpagliate e ammucchiate.
Così Vincenzo Trione nel suo bel saggio Prologo celeste[1], cronaca di un soggiorno presso La Ribaute, l’atelier dell’artista tra i monti del sud della Francia.
Una stratificazione che si riflette nell’atto creativo, dal momento che Kiefer ama lavorare facendosi guidare dall’ispirazione ricevuta dai materiali che utilizza.
Materiali non convenzionali, frammenti da assemblare e legare assieme indipendentemente dalla loro natura e provenienza, fino a formare impasti complessi dove il singolo elemento diventa difficilmente distinguibile per quello che era in origine.
L’opera, il suo significato, le citazioni che contiene – e in genere ne contiene moltissime, pescando dalla Bibbia quanto dalla letteratura modernista -, sono dettate dai materiali, dal loro modo di legarsi assieme, da come essi smuovono l’anima dell’artista.
Se studiare le tecniche dell’arte contemporanea richiede di liberarsi dai dettami tecnici, per studiare Kiefer è richiesto un ulteriore sforzo intellettuale.
Dinanzi a me, opere che sembrano provenire dalla preistoria o, forse, da un tempo che non c’è ancora. Quadri alti come case, stratificati di elementi inconciliabili, percorsi da forze caotiche e, spesso, da scritture ermetiche. Drammaturgie che evocano eroi e miti babilonesi, egizi e germanici. Superfici invase da rami, da rose, da paglia, da sabbia, da terra, da capelli, da frutta secca, da mattoni sbriciolati, da semi di girasole, a lungo esposti alla pioggia, alla neve e al sole. Dipinti nei quali sono state inumate sostanze mummificate, ingrigite, sbiancate, polverose, decadute, meticolosamente estratte dalla penombra di qualche limbo. Dopo averne ascoltato i crepitii e i battiti, Kiefer ha ammucchiato, riunito e mescolato quelle essenze. In attesa dei segni impressi da qualche incidente, dal tempo, dagli eventi atmosferici. Il potere dell’inintenzionale e dell’impuro.
Così, sempre Trione. Parole che danno l’idea del grado di complessità che può essere raggiunto. A mettere ordine, ci ha provato qualche anno fa un team di ricerca italiano con cui collaborava anche il celebre restauratore di arte contemporanea Antonio Rava, presentando i risultati in un paper pubblicato sulla rivista Archaeol and Anthropol Sci[2].
Senza entrare in difficili dettagli, basti sapere che analizzando un frammento di meno di due centimetri di larghezzaproveniente dal dipinto Bohemia Lies by the Sea, è stata riscontrata la presenza di un concentrato notevole di differenti pigmenti, di natura tanto minerale quanto sintetica, e di leganti diversi come lacca e olii siccativi.
Parliamo di miscele di materiali che non necessariamente sono compatibili e che, anzi, possono creare, assieme, una grande instabilità chimico-fisica.
Nell’ambito delle tecniche tradizionali, questo comporterebbe quasi certamente un disastro dal punto di vista conservativo. In quella di Kiefer, invece, il disastro è esattamente ciò in cui è racchiuso il senso dell’atto artistico.
L’opera è destinata, volontariamente, ad essere cangiante, caduca, proiettata al disfacimento se esso è nell’ordine delle cose.
Chiaramente, dal punto di vista del restauro e della conservazione – specie ai fini del collezionismo -, questo guida a scelte conservative che non potranno che essere, molto di frequente, palliative e temporanee.
In questo caso, liberamente citando i Vangeli come piacerebbe fare a Kiefer, la scienza del restauro deve diminuirsi perché l’intenzione artistica possa accrescersi.
Questa considerazione mi ha fatto riflettere, specialmente dopo aver letto un articolo uscito su Artnet a firma di una certa Naomi Rea, che si chiedeva se fossero conciliabili le ambizioni monumentali dell’opera di Kiefer – certe opere consistono in teleri larghi decine di metri come quelli esposti in una celebre mostra nel Palazzo Ducale di Venezia nel 2022 – e le necessità del mercato dell’arte.
Uno dei problemi che l’autrice mette in luce, è proprio la difficoltà del mercato di fronte a opere che fanno dell’apertura al non prevedibile il proprio essere. La conclusione che si trae è che Kiefer sia un artista tanto stimato dalla critica e dal pubblico, quanto difficile sul mercato, e che i pezzi più piccoli per dimensioni e tecnicamente meno complessi siano quelli che, ovviamente, abbiano maggior respiro.
Insomma, per vendersi, Kiefer deve concedersi, almeno parzialmente, al mondo. Nel mondo ma non del mondo, sempre richiamando i Vangeli.
L’opera di Kiefer è talmente profonda, complessa e universale che può sembrare di cattivo gusto parlarne secondo le dinamiche del mercato.
Ma il diavolo è il principe di questo mondo e il denaro è lo sterco del diavolo. Con questo bisogna fare i conti, naturalmente.
[1] Prologo Celeste, Nell’atelier di Anselm Kiefer, Vincenzo Trione, Einaudi, 2023.
[2] Anselm Kiefer: a study of his artistic materials, Bartolozzi, G., Picollo, M.,Marchiafava, V., Centeno, S.A., Duvernois, I., Di Girolamo, F., Modugno, F., La Nasa, J., Colombini, M.P., Rava, A., in Archaeol and Anthropol Sci, (2016) 8:563–574.