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Storia di un’ossessione. Una croce in avorio di tricheco del Metropolitan Museum.

del

Il falso è l’ospite inquietante nel collezionismo d’arte. Nonostante tutte le accortezze che si possano mettere in pratica – delle quali ha di recente parlato su queste pagine Sara Stoisaanche i meno sprovveduti hanno ceduto, inconsapevoli, alle malìe di falsari che del loro sinistro artigianato hanno fatto un’arte.

Salvatore di Taranto ha scritto del bel libro di riflessioni sul collezionare di J. Paul Getty e mi sembra doveroso, quindi, ricordare che la collezione Getty annovera tra le sue antichità un probabile, clamoroso, falso: mi riferisco al famigerato Kouros Getty.

I kouroi sono l’emblema della scultura greca arcaica: giovani uomini e donne (kore, in questo caso) in posizione eretta rigorosamente frontale, scolpiti secondo volumi compatti e definiti, le braccia distese lungo il busto, una gamba che incede solenne nella sua eterna fissità. Stampato sul viso, il celebre e misterioso sorriso arcaico.

Ebbene, nel 1985, J. Paul Getty acquista da un mercante di Basilea un kouros, da subito pomo della discordia nella cerchia del magnate californiano. L’occhio infallibile di Federico Zeri – che della collezione Getty era stato in qualche modo plasmatore – individua prontamente il falso, portando il grande critico romano, non estraneo a gesti teatrali, a dimettersi sdegnato dal consiglio d’amministrazione della fondazione.

Ad oggi, dopo perizie e test di ogni tipo, non si è ancora arrivati ad un’attribuzione univoca, e la scheda riferita al kouros sul sito della collezione riporta la neutrale dicitura “about 530 B.C. or modern forgery”.

Anche un’altra voce autorevole si espresse negativamente, seppur non direttamente coinvolta, sul kouros del Getty: quella di Thomas Hoving. Figura incredibile, Hoving è stato direttore del Metropolitan Museum dal 1967 al 1977, dieci anni in cui ha rivoluzionato il più grande museo americano. Dai più è ricordato per l’allestimento di alcune mostre di notevole impatto mediatico, come quella, dai risvolti diplomatici, del tesoro di Tutankhamon proveniente da Il Cairo, o quella multimediale Harlem on My Mind, una mostra sulla cultura afroamericana distintasi per non ospitare nemmeno un artista afroamericano.

Ma è sul fronte dell’ampliamento delle collezioni che Hoving diede il meglio di sé. Nato in una famiglia dell’alta borghesia newyorkese, laureatosi come storico dell’arte medievale a Princeton, Hoving apparteneva a quella generazione di curatori pescecani che negli anni ‘50 scorrazzava per l’Europa – e per l’Italia in particolare – alla ricerca di pezzi unici da poter acquistare in maniera più o meno lecita, approfittando, ahinoi!, del lassismo di allora riguardo la protezione del patrimonio storico e artistico.

Significativo l’episodio, raccontato nel suo bel libro di memorie Il Re dei Confessori, del rilievo romanico con un’Annunciazione, per vie traverse finito tra le mani di un ricettatore d’arte che lo nascondeva in un garage di Genova, e che Hoving, candidamente, confessa di aver acquistato per il suo museo e trasportato fuori dall’Italia clandestinamente.

Ma ciò, seppur clamoroso, è comunque marginale rispetto al racconto dell’inseguimento di una misteriosa croce scolpita in avorio di tricheco, rarissima testimonianza di arte inglese del XII secolo, comparsa sul mercato nei primi anni ’60 e contesa dai musei di mezzo mondo.

Hoving, allora assistente curatore dei Cloisters (la sezione medievale del Metropolitan), ambizioso oltre ogni limite, fece di questa croce la propria ragione di vita, stuzzicato, forse, dall’atteggiamento controverso del proprietario della stessa, il misteriosissimo Ante Topic Mimara, sedicente restauratore jugoslavo con cittadinanza austriaca ma, per qualche ragione, riparato a Tangeri: lo strano tipo era difficilmente reperibile, tentennava sul prezzo variabile a seconda del potenziale acquirente, e si divertiva a punzecchiare l’orgoglio di Hoving e del Met asserendo ripetutamente di aver già promesso la croce al British di Londra.

Inoltre, per poter vedere l’oggetto dal vero, poneva l’obbligo di recarsi di persona a Zurigo, dove nel caveau di una banca era custodito insieme al resto della “preziosissima” collezione d’arte medievale.

Con la diffidenza del suo direttore alle spalle, Hoving si recò, quindi, in Svizzera, trovandosi davanti a una situazione alquanto sospetta: se buona parte della collezione dello jugoslavo era in realtà composta da patacche e falsi palesi, la croce appariva con ogni evidenza come originale.

Alta poco più di cinquanta centimetri e ricoperta da un centinaio di figure minuziosamente scolpite a formare una complessa narrazione di storie della Passione ed episodi cristologici dell’Antico Testamento.

Un capolavoro senza dubbio, di cui non si conoscevano, però, né l’autore né la provenienza.

Particolare non irrilevante, Mimara rifiutava di rivelare come fosse entrato in possesso della croce: fattore, questo, che avvantaggiò decisamente il Metropolitan, istituzione privata, rispetto al British, ente pubblico con l’obbligo di dimostrare al parlamento di non acquistare pezzi di provenienza poco limpida.

Dopo tre anni di corteggiamento, di frustrazione e di entusiasmo altalenante, Hoving riuscì ad assicurare la croce al proprio museo, non senza aver avuto modo di venire a conoscenza della vera, triste storia di Topic Mimara: collaborazionista durante l’ultimo conflitto, egli aveva servito da esecutore durante i sequestri di opere d’arte ordinati dai nazisti specialmente ai danni di famiglie ebree, riuscendo probabilmente ad arraffare, a guerra finita, alcune di queste opere fino a costruirsi una collezione propria. Oggi, nel suo paese di origine, un museo che porta altezzosamente il suo nome espone quei pezzi: non proprio un vanto.

Giunta a New York, la croce venne esposta con tutti gli onori insieme a un altro grande capolavoro, la Monna Lisa di Leonardo, allora ancora concessa in prestito da Parigi. Nonostante ciò, rimaneva un mistero la sua origine. Lo stesso Hoving, nel suo libro, tenta di trovare il bandolo della matassa, indicando la provenienza dall’antico monastero di Bury Saint Edmunds in Inghilterra e l’autore nel mitico Master Hugo, versatilissimo miniatore e scultore, con probabili manomissioni successive da parte di un abate di nome Samson, il quale, divorato da pregiudizi antisemiti, se ne servì come strumento di propaganda per alimentare violente repressioni contro gli ebrei residenti nei domini della sua abbazia.

Il libro di Hoving è appassionante perché fornisce una panoramica sul  mercato dell’arte internazionale del secondo dopoguerra, tra esperti, mecenati, truffatori e  parvenu, attori di una vivace rinascita del collezionismo d’arte.

Si trattava di cacciare e catturare, una delle esperienze più corroboranti nella vita, spettacolare, emozionante e appagante come un’avventura amorosa. – Thomas Hoving, Il Re dei Confessori.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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