«Ogni alba ha i suoi dubbi», scriveva Alda Merini, e l’arte di Linda Carrara è certamente fatta di mille albe. Ognuna dedicata a determinati aspetti della vita e separata dalle altre da veri e propri terremoti o, come lei stessa dice, da “smottamenti” in cui regna un dubbio quasi amletico da cui poi prendono origine i lavori successivi. I suoi dipinti sono disseminati di indizi, tracce di un cammino attraverso il vissuto, in cui ogni pennellata, ogni segno di matita, è un lacerto di memoria avvolto dal silenzio. Quella stessa assenza di parole che ci coglie davanti allo stupore come di fronte allo smarrimento e all’incertezza.
Nicola Maggi: Guardando i tuoi lavori mi è venuta in mente Clara Malausséne, uno dei personaggi principali del ciclo di Daniel Pennac. Clara fotografa tutto quello che le capita a tiro e, in particolare, le proprie paure per comprenderle e superarle…
Linda Carrara: «Non ho letto il quartetto di Belleville di Pennac, ma cercherò di leggerlo nei prossimi mesi che passerò a Bruxelles, perciò non ho idea di come sia il personaggio di Clara. Per come me l’hai descritto, il modus operandi di Clara è molto vicino al mio. Da sempre colleziono oggetti più o meno bizzarri che trovo o che cerco, pezzi di natura e fiori da seccare, immagini che attirano la mia attenzione o che decido di fotografare, li archivio e li dimentico fino a quando riaffiorano alla mente. Questi frammenti non sono altro che indizi di una realtà che mi circonda e che va scemando col tempo; rimane il dubbio della loro esistenza e della loro necessità e li sfrutto per come sono, pezzi inutili di un vivere».
N.M.: Nel tuo lavoro l’essere umano, quando è presente, appare sempre in uno stato di sospensione, fino a farsi quasi natura morta, come nella serie “Anche tu eri le mie mani” o in”La scelta della castità riaccende il desiderio”…
L.C.: «È il senso di smarrimento che viene se tentiamo di razionalizzare la vita e gli avvenimenti. L’ipotesi di poter razionalizzare tutto non può far altro che lasciarci attoniti di fronte alla realtà dei fatti. Anche le ricerche scientifiche arrivano a punti morti, oltre i quali è impossibile andare o a punti nei quali si deve rivedere la teoria sviluppata in precedenza mutando, così, tutta la scienza relativa a quel campo; recente è la notizia di Stephen Hawking che smentisce l’esistenza dei buchi neri per come erano stati teorizzati fino ad oggi o la scoperta dei neutrini che viaggiano più veloci della luce. Viviamo in un frangente di impossibilità di certezze, forse per questo tendo a congelare il tutto in un eterno still life».
N.M.: …che poi è il tema centrale di uno dei tuoi primi progetti: “Alchimia del Buio”. Ce ne parli?
L.C.: «Alchimia del buio gira proprio attorno al vissuto e al non vissuto. E’ una riflessione sull’importanza della scelta e del non scegliere. Del sapere come del non sapere. Ognuno di noi ha provato sentimenti per i quali è quasi impossibile trovar parole ed è tramite la pittura e la sua impossibilità di esser raccontata e spiegata che ho cercato di indagare queste sensazioni. Si dice che usiamo una piccolissima parte delle capacità del nostro cervello, ma nemmeno possiamo immaginare cosa le parti inutilizzate potrebbero permetterci di fare. È come se vivessimo in un costante nero, dove solo alcuni dettagli vengono colpiti dalla luce e costituiscono la nostra piccola e relativa porzione di realtà della quale ci sentiamo protagonisti indiscussi».
N.M.: Uno dei tuoi lavori è interamente dedicato all’esperienza che hai fatto a Bruxelles: un taccuino d’appunti sulla cui copertina si legge “d’io”. Ci racconti come è nascono questi appunti di viaggio?
L.C.: «I diari di Bruxelles sono nati per esigenza. Arrivata nella città fiamminga svuotata dal molto lavoro e dal mondo dell’arte odierno, non molto affine alla mia personalità, ho passato un periodo abbastanza lungo in una sorta di stato catatonico. La costante pioggia che caratterizza il paese nordico non ha sicuramente aiutato, ma, al risveglio, dopo aver assorbito per osmosi energie vitali, mi sono trovata di fronte a questi piccoli sketchbook. Li ho sfruttati come piccole scatole nere. Un’analisi istintiva, senza riflessione ne pensiero. Per ciò uno di questi si chiama d’Io. Sull’Io. Io creatore. Dio essere innominabile che plasma la vita stessa, azione per la quale non abbiamo possibilità di scelta o di razionalità».
N.M.: Nei tuoi lavori ricorrono spesso riferimenti all’arte sacra o alla simbologia cristiana. Che ruolo ha la fede nel percorso che proponi allo spettatore?
L.C.: «É semplicemente un atto di fiducia. Fiducia nell’arte, nelle capacità che ha di ristabilire ordini propri e nella sua innata sacralità. L’arte è un dono, per lo spettatore e per l’autore. É un’indagine estetica che cerca di coinvolgere tutti i sensi e le riflessioni; l’artista non è poeta, né filosofo né scienziato, è per tutto ciò un profano che si pone le stesse domande con un altro linguaggio. Un linguaggio intraducibile, fortunatamente. L’atto di fede è innanzitutto il mio, nel non voler sporcare o modificare ciò che realmente nasce nella mia mente e nelle mani. Mi fido ciecamente. In passato la messa era detta in latino e dato che quasi tutto il popolo era analfabeta ne usciva una sorta di ipnosi. Tramite le voci melodiche, l’organo, le decorazioni, gli affreschi, l’incenso e tutto ciò che coinvolge i cinque sensi riuscivano ad imporre fiducia verso le Sacre Scritture. Potrei dire che, togliendo a ciò qualsiasi riferimento religioso di qualsiasi natura e lasciandone soltanto il senso storico e sensoriale, si potrebbe forse arrivare a definire quale importanza abbia la fede nella mia vita».
N.M.: In che direzione sta andando la tua ricerca artistica?
L.C.: «In generale, un’estrema semplicità, il togliere più che l’aggiungere e un occhio scientifico da sala operatoria come in un perenne esperimento di vivisezione sono costanti del mio lavoro. L’indagine sulla razionalità umana nell’ottica di un costante evento elementare, unico esperimento che non può avere altre conferme. 1 su 1.»
Per vedere altri lavori di Linda Carrara: www.lindacarrara.com