C’è un’Italia dell’arte e del bello, l’Italia amata dal turismo internazionale e dal cinema d’autore. C’è, poi, un’Italia interrotta, fatta di luoghi abbandonati, di progetti partiti e mai realizzati. E’ in questi luoghi che potete incontrare Pietro Manzo, giovane artista di origini salernitane, intento a collezionare impressioni, memorie, tracce che oggi sono custodite in un vero e proprio archivio infinito di foto e disegni. Una raccolta che matura nel tempo, fino a riemergere, quasi casualmente, stratificandosi sulle sue tele come somma di suggestioni, eco di un’esperienza personale in costante equilibrio tra ciò che è e ciò che la mente ricorda. Per conoscere meglio il suo processo creativo lo abbiamo incontrato nel suo studio fiorentino. Lo stesso che quasi secolo fa ha ospitato Tito Conti e che oggi lo vede artist in residence grazie al successo ottenuto in occasione del Premio “Tito e Maria Conti 2009”.
Nicola Maggi: Quando è iniziato questo tuo interesse per i “luoghi sospesi” del nostro Paese?
Pietro Manzo: «Quando ho cominciato a frequentare l’accademia stavano iniziando i lavori della Salerno-Reggio Calabria e, puntualmente, i cantieri venivano messi sotto sequestro giudiziario. Questo mi ha dato la possibilità di entrare in queste aree immense , di stare lì e di passarci un po’ di tempo ad osservare. Inizialmente facevo solo delle foto, quasi per caso, senza avere ancora la consapevolezza che un giorno mi sarebbero state utili per la mia pittura».
N.M.: Da questi sopralluoghi è nata una vera e propria collezione che oggi è il punto di partenza delle tue creazioni…
P.M.: «Sì, fin dal primo momento ho iniziato a mettere su un archivio infinito di fotografie scattate in aree e in luoghi dove qualcosa si è fermato. Dai primi sopralluoghi casuali, con il tempo, ho iniziato a fare delle vere e proprie immersioni in questi luoghi. Vado lì più volte e ci trascorro del tempo, alla ricerca di qualcosa di sospeso. La cosa che mi affascina di più è pensare che qualunque cosa che ti circonda, in un cantiere o in una casa abbandonata da tempo, è, in fondo, la memoria di un gesto che qualcuno ha lasciato in quel luogo. Durante i miei sopralluoghi molte volte faccio anche dei disegni che mi servono, più che altro, per fissare e memorizzare quello che vedo. In quei momenti il disegno è, per me, uno strumento per guardare, per memorizzare. Questi disegni, assieme alle fotografie, divengono il materiale effettivo con cui poi costruisco la mia pittura qui in studio».
N.M.: Come intervieni sulle “memorie” che riporti dai sopralluoghi?
P.M.: «Una volta nell’archivio, il materiale che raccolgo viene ripescato quasi per caso, anche dopo mesi. Lo guardo, ci ripenso. I miei quadri sono il risultato di più immagini e più esperienze contemporanee. Non mi interessa riproporre una fotografia o illustrare una realtà, quello che voglio è evocare ciò che ho visto. Sulla tela seguo le immagini fino ad un certo punto, poi vado di testa e il risultato è qualcosa che va oltre la realtà; anche se possono sembrano dei luoghi esistenti, in realtà sono frutto di una stratificazione di memorie che si mescolano. La cosa interessante è che c’è sempre una differenza nelle cose tra come le ricordiamo e come realmente sono. Alcuni miei lavori si concentrano proprio su questo aspetto: sul ripensare a dei luoghi e cercare di farli entrare nella mia pittura solo pensandoli, senza riguardare le immagini che ho scattato. E questo fa sì che riemergano in modo sempre diverso. Spesso, quando dipingo, non so bene quello che sto facendo, lo capisco mentre lo faccio. E’ quasi una forma di scrittura automatica che, talvolta, nasce anche dalla voglia di usare dei determinati colori o anche un colore solo ».
N.M.: Cos’è che ti fa capire che un luogo è il “tuo” luogo?
P.M.: «Principalmente, quello che mi interessa, è questa idea di sospensione ma anche un certo caos che mi permette tanta libertà quando dipingo. Infatti, nei miei quadri non ci sono presenze, tutto è fermo, sono scene inanimate e quando ci sono delle figure è difficile identificarle. La scena è sospesa, congelata».
N.M.: Ti sei mai cimentato in qualche “escursione” verso medium diversi dalla pittura?
P.M.: «Alcune volte sì, quando sento che c’è un bisogno, come nel caso del porta cartoline che vedi là (indica un angolo dello studio, ndr). Raccoglie tanti piccoli dipinti tratti da aree poste sotto sequestro giudiziario e tutti realizzati su lastre d’alluminio che hanno le dimensioni della cartolina: dei souvenir di un’Italia molto distante da quella tipica, vista dall’angolazione del turista che viene qua e vede il bello del nostro Paese».
© Riproduzione riservata
Per saperne di più: www.pietromanzo.net