Al termine della maratona dell’apertura, è difficile fare subito un bilancio, perché sono tanti gli stimoli e informazioni da elaborare. Ma ci siamo presi qualche giorno in più, dopo l’inaugurazione della scorsa settimana.
Ad ogni modo, con questo editoriale ci limiteremo dunque ad alcune constatazioni e impressioni generali, e indicazioni chiave per orientarsi fra Esposizione principale, Padiglioni Nazionali e Collaterali da non Perdere.
Un diverso approccio, per ampliare la prospettiva fra saperi indigeni, spiritualità altre e narrazioni diasporiche
Preparatevi: sono poche le star del contemporaneo che siamo soliti vedere fra Art Basel e Frieze, inclusi nella 60 edizione della Biennale di Venezia curata da Antonio Pedrosa.
Come poi sono poche le scoperte che le gallerie possono fare per rivalutazioni commerciali, essendo gran parte degli artisti davvero fuori dal sistema, o già passati all’altro mondo.
La Biennale di quest’anno sceglie piuttosto di privilegiare un approccio antropologico e etnografico, dando il palcoscenico alle espressioni artistiche attuali e recenti provenienti dal Global South, e privilegiando narrative indigene e queer a lungo considerate “foreigners” in una biennale e nel sistema.
Stranieri ovunque propone il necessario cambio di prospettiva, senza tanta retorica, rispetto al canone eurocentrico e capitalista dell’arte, per portarci ad esplorare saperi nativi altri, estetiche ed espressioni queer, come poi alla fine a riscoprire anche saperi locali di resilienza e resistenza per ristabilire nuovi equilibri strutturali, ambientali e sociali.
Ad abitare il padiglione centrale fra Giardini e Arsenale sono opere che spesso, superando ogni aggressiva rivendicazione politica a cui siamo stati abituati dalle Biennali finora, paiono invitare piuttosto ad abbracciare un messaggio di multiculturalismo e universalismo, sempre più necessario nel turbolento momento storico, culturale e umano che stiamo vivendo.
Questa Biennale vuole ispirare un cambio di prospettiva, a partire da voci finora spesso fuori dal sistema ufficiale dell’arte, istruire a techne alternative e linguaggi simbolici diversi, come nel caso delle visionarie opere di Santiago Yahuarcani, gli astratti paesaggi di segni che incorporano la spiritualità Dinè di Emmi Whitehorse, alle simbologie incorporate nel territorio del grand Kenyon di Kay WalkingStick.
In questo senso, è fondamentale notare anche le installazioni di collettivi indigeni che aprono, come dei portali, le presentazioni sia ai Giardini che all’Arsenale, proponendosi come parte di un rito di passaggio: la colorata opera murale del collettivo MAHKU ha trasformato l’intera facciata del Padiglione Centrale della Biennale, occupandolo con la storia degli Huni Kuin (un popolo indigeno dell’Amazzonia brasiliana e di alcune zone del Perù) del kapewë pukeni (o ponte degli alligatori), un mito su l’attraversamento dello stretto di Bering che un tempo collegava via terra l’Asia e il Nord America.
All’Arsenale invece Takapau (2022) del Mataaho Collective è uno spazio meditativo e scarsamente illuminato in cui sono sospese delle fascette di poliestere grigie e fibbie di valigie in acciaio intrecciate secondo la tecnica del takapau, una stuoia intrecciata usata durante il parto nella cultura Māori ed è la parola che segna il momento della nascita, “significando la transizione tra la luce e l’oscurità, Te Ao Marama (il regno della luce) e Te Ao Atua (il regno degli dei)”, secondo il testo del muro.
Altro tema di questa Biennale poi è, come prevedibile, quello degli spostamenti, migrazioni e il senso di appartenenza, come condizioni esistenziali che oscillano spesso tra il reale e l’immaginario, memoria storica e personale, nelle varie narrative diasporiche presenti.
Pedrosa continua poi anche il suo impegno per ampliare la prospettiva storico artistica avviato al MASP di San Paolo con i vari “nuclei storici”, come quello dedicato ai pionieri dell’astrazione nel Sud del mondo, rivelando risonanze e somiglianze nelle elaborazioni astratte fra tradizioni tessili, cosmologie antiche e vision spirituali che connettono la vita terrestre ad altre dimensioni.
Fra questi, le geometriche astrazioni della africana Esther Mahlangu portate dalla tradizionale pittura parietale alla tela; le astrazioni scultoree fra corpo luna e materia della cubana Zilia Sánchez, le composizioni di fibre e colori di Eduardo Terrazas, e molti altri pionieri dell’astrazione nel Global South, finora non inclusi nella panoramica storica.
Offre una nuova prospettiva, forse necessaria, anche la sezione del nucleo storico “Italiani Ovunque/Italians Everywhere” dedicata alla diaspora Italiana nel mondo: tramite l’elegante soluzione espositiva di Lina Bo Bardi vengono esposte opere di artisti come De Pisis, Gnoli, Anna Maria Maiolino, fra i vari, narrando così le storie degli italiani emigrati soprattutto nel Latino America, gli scambi reciproci che hanno contribuito anche allo sviluppo del modernismo così poi come dell’arte postwar.
Vere chicche le troviamo poi nella quadreria da tutto il mondo del nucleo storico di “Portraits” dove capolavori di nomi già noti come Frida Kahlo, Diego Rivera entrano in dialogo con molti altri geni poetici e visuali a livello globale, tra Sud America e sud est asiatico, alcuni dei quali anche con già interessanti movimenti di mercato nei paesi di provenienza, come nel caso dll’indonesiano Hendra Gunawan.
Nel mentre, nella hall centrale dei Giardini troviamo una decostruzione e riarticolazione della narrativa della storia coloniale in Portorico dell’artista Pablo Delano che risulta in una sorta di anti museo postcoloniale, simile all’operazione dell’artista peruviana Sandra Gamarra che rappresenta quest’anno la Spagna con il suo “Museo Migrante”.
In generale, nel presentare il lavoro di artisti indigeni e del Sud globale, la Biennale non pare comunque distaccarsi dal suo modello tradizionale, che è di fatto radicato in storie di nazionalismo (vedi il concetto stesso di padiglioni nazionali). Piuttosto, la Biennale di Predosa agisce su varie latitudini e tempi dell’arte, per per ridefiniire ed espandere il canone e la visione dell’espressione artistica e culturale dell’umanità non di questo pianeta, del nostro tempo e nel suo passato recente.
Grazie anche alle soluzioni espositive utilizzate e alla selezione di un numero più limitato di opere rispetto alle ultime edizioni, questa Biennale risulta comunque alquanto condensata e ben navigabile, nonostante la quantità di narrative e contenuti che poi include.
Spazio a narrative indigene e spiritualità altre, nel discorso post coloniale e post nazionalista di tanti padilioni nazionali
In generale nei padiglioni nazionali troviamo un simile tono, che privilegia narrative native, e portano avanti un discorso post nazionlista, e postcoloniale.
Da notare come più di uno dei padiglioni è stato assegnato ad artisti provenienti dai paesi colonizzati invece che colonizzatori, come nel caso appunto della prima citata Spagna, ma anche del padiglione Olanda in diretta connessione con Uganda (incluso live streaming) con il collettivo Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC), in collaborazione con l’artista Renzo Martens e il curatore Hicham Khalidi, un progetto finalizzato a liberare e rigenerare la coltivazione di Lusanga, nella Repubblica Democratica del Congo (dove è sorta la prima piantagione della società anglo-olandese Unilever), trasformandola in una sorta di foresta sacra.
Una risposta sicuramente interessante alla questione dell’assetto dei padiglioni, sempre più criticato in una realtà globale ma anche sempre più tendente ad estremisti nazionalisti, come quella di oggi.
Molto presente, e non solo perché siamo a Venezia, è anche la dimensione acquatica, e in particolare il mare come luogo di scambi di merci, storie e vite, come luogo fluido e di trasformazione.
Un esempio è il padiglione Francia, con l’installazione immersiva nella ritualità di una danza acquatica degli esseri androgini marini immaginati dell’artista franco-caraibico Julien Creuzet a partire da miti locali della Martinica.
È invece una spettrale nave a forma di drago ad invitarci nel tour de force e gesumerwek multilingue immaginato dal Padiglione dei Paesi Nordici con The Altersea Opera.
L’acqua scorre poi anche fra le fantasiose installazioni della scultrice Yuko Mohri che presenta una ingegneria di oggetti di recupero, Ispirata da i vari espedienti adottati nelle stazioni della metropolitana di Tokyo per fermare le perdite d’acqua,
Lascia forse un po’ perplessi l’estetica psichedelica e talvolta troppo pop eccentrica usata per la rivendicazione di diritti nativi da Jeffrey Gibson nel padiglione Americano, con il rischio di finire nel mero entertainment, invece di andare a fondo in una questione di parità e diritti ancora in gran parte irrisolta negli Stati Uniti, anche rispetto ad altri Paesi. L’artista ha giustificato il linguaggio utilizzato come un uso del colore per ispirare un necessario mash up, in una identità in between da lui stesso come artista queer e nativo americano di origine Choctaw e Cherokee, che ha vissuto fra vari paesi inclusa la Corea: tutto sommato comunque un messaggio ancora una volta di universalismo importante e in linea con il resto della biennale.
Sempre nel portare avanti una rivendicazione dei diritti delle popolazioni native, ha invece privilegiato tutt’altro rigore estetico e narrativo il Padiglione Australia dell’artista aborigeno Archie Moore, premiato con il Leone D’oro, per questo incredibile memoriale, e paesaggio astratto di morte e perdite: nelle pareti del padiglione dipinte interamente di nero l’artista ha tracciato la storia genealogica della sua famiglia e dei suoi antenati nome dopo nome, come una catena in cui si evidenzia come i nomi cambiano, da una lingua all’altra anche tramite gli incroci e intrecci della colonizzazione; al centro di esso invece un’isola, un blocco bianco fatto di documenti che testimoniano la morte di milioni di indigeni trattenuti in custodia, nel corso della storia recente del paese.
Anche il padiglione Italia ci invita ad in uno spazio essenziale, meditativo ma a livello spirituale individuale, con il progetto Due Qui/Tu Hear, concepito dall’artista Massimo Bartolini e curato da Luca Cerizza, come piattaforma multidisciplinare e multisensoriale che invita ad un esercizio di “ascoltare se stessi”, fondamentale nell’ orientarsi nel caos di oggi.
Sempre all’Arsenale, l’unica presenza del tanto discusso AI la troviamo nell’opera di Matthew Attard concepita per il padiglione Malta come un percorso di co-creazione tra immaginazione collettiva e digitale di I Will Follow The Ship.
Amatissimo il sentimentalismo erotico delle pittura dell’artista Iva Lulashi, che è arrivata così all’attenzione internazionale rappresentando quest’annno il suo paese Albania con Love as a Glass of Water, curato da Antonio Grulli e ispirato al pensiero della scrittrice femminista pre-rivoluzionaria Alexandra Kollontai: bisognerebbe fare l’amore per sopperire alle proprie necessità con la stessa leggerezza di bere un bicchiere d’acqua.
Fuori da Arsenale e Giardini, da non perdere sono l’inaugurale padiglione Etiopia con tre intricate composizioni e trasfigurazioni di vita quotidiana dell’artista Tesfaye Urgessa a Palazzo Bolani e l’Immaginario Nigeriano a Palazzo Canal con nomi già noti a livello internazionale come Tunji Adeniyi-Jones, Ndidi Dike, Onyeka Igwe, Toyin Ojih Odutola, Abraham Oghobase, Precious Okoyomon, Yinka Shonibare e Fatimah Tuggar.
Pressoché impossibile entrare invece nel tanto chiacchierato Padiglione Holy See del Vaticano, in quanto localizzato all’interno del Carcere Fmminile in Giudecca, con necessaria prenotazione settimane e mesi in avanti. Meritano poi la Tana Arte, appena all’uscita dell’Arsenale, anche le visionarie installazioni dell’artista Trevor Young per il Padiglione Hong Kong, e le colorate composizioni monumentali di scarti elettronici dell’artista etiope Elias Sime.
Una ricca mappa di collaterali di qualità
Tante anche le mostre in città nei vari palazzi e musei che hanno aperto attorno alla Biennale, da non perdere.
Fra queste, come sempre visita d’obbligo va ai due punti espositivi della Fondazione Pinault, con la più grande mostra dedicata a Julie Mehretu che entra in dialogo con i sontuosi interni e marmi di Palazzo Grassi e con brillanti accostamenti con opere di Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Tacita Dean, David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin; a Punta Della Dogana ci si immerge invece nelle misteriose installazioni di Pierre Huyghe che invitano a visionare un futuro postumano, e una diversa simbiosi fra specie.
Altra mostra da non perdersi è poi Breast a Palazzo Franchetti, dove alla scenografica installazione immersiva all’ingresso fanno seguito alcuni ragionati dialoghi fra opere di vari nomi noti del contemporaneo e moderno come Laure Prouvost, De Chirio, Louise Bourgeois, Cindy Sherman, fra i tanti, per un’analisi storico-artistica di come il seno sia stato compreso e rappresentato nell’arte, nei vari secoli, al di là di pregiudizi e sessualizzazione.
Poco lontano a Gallerie dell’Accademia è imperdibile la mostra dedicata al periodo in Italia e risultante ispirazione di Willem De Kooning, mentre a San Giorgio troviamo Alex Katz curato da Luca Massimo Barbero, Berlinde De Bruyckere e la mostra retrospettiva di Chu Teh-Chun a cura di Matthieu Poirier.
Da non perdere anche la mostra dell’artista coreano Lee Bae a Fondazione Wilmotte, a cura di Valentina Buzzi, “La Maison de La Lune Brûlée”, che esplora il profondo legame di Lee Bae con il Daljip Teugi, un rituale secolare sincronizzato con la cosmologia ciclica, intrecciando il folklore con l’arte contemporanea e invocando un ritorno al rinnovamento e alla circolarità.