Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. (Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile; non so, ma è proprio così e mi tormento). I versi di Catullo sembrano fatti apposta per descrivere il rapporto tra il collezionismo e i consulenti d’arte. Detestati e guardati con sospetto dai puristi – che ritengono che una collezione debba essere espressione personale del solo collezionista -, sono, invece, “amati” da coloro che ritengono che gli acquisti importanti debbano essere supportati da servizi professionali. Comunque la pensiate, oggi, i consulenti d’arte sono tra i protagonisti del mondo dell’arte contemporanea e il loro compito – svolto con più o meno professionalità – è quello di aiutare i collezionisti, o aspiranti tali, ad orientarsi in un mercato sempre più vasto, sia dal punto di vista geografico che da quello dell’offerta.
A patto di potervelo permettere, sinceramente, non vedo perché demonizzare la figura del consulente d’arte. Se bravo, infatti, il consulente non deve sostituirsi al collezionista ma aiutarlo a venire allo scoperto, mettendo in atto, senza imporre la propria estetica, un processo molto soggettivo che permetta al cliente di capire quale sia la collezione più giusta per lui. Deve essere in grado, in altre parole, di sintonizzarsi con il cliente così da contribuire alla nascita di una raccolta che ne rifletta gli interessi, le ambizioni e gli obiettivi. Elementi personali che, se non ancora “emersi”, il consulente dovrà stimolare perché vengano fuori. E’ da questi, d’altronde, che si deve partire per disegnare una collezione degna di questo nome.
Oltre questo, come spiegano Luisa Buck e Judith Greer nel loro prezioso manuale Come comprare l’arte contemporanea – sfortunatamente oggi fuori catalogo – uno dei compiti fondamentali del consulente d’arte è quello di mettere il collezionista nelle condizioni di accedere ad opere che, altrimenti, gli sarebbero precluse dai meccanismi del sistema dell’arte. Come racconta alle due autrici Polly Robinson, consulente d’arte londinese, infatti, «non basta entrare da Contemporary Fine Art a Berlino per comprare un Daniel Richter. Ma se ci si va sottobraccio a un famoso consulente d’arte, che prima ha telefonato al direttore della galleria e confermato le serie intenzioni del suo cliente, dicendogli che si tratta di una persona fidata e davvero interessata a quell’opera, e che non la acquista per rivenderla, allora ci sono buone probabilità di ottenere un suo pezzo». Per far questo i consulenti devono, anche in questo caso, agevolare e stimolare la nascita di relazioni dirette tra il collezionista e i mercanti d’arte.
Da quanto detto fino ad ora, capite bene come la scelta di un consulente non sia affar semplice e spesso quello giusto lo si conosce grazie al passaparola. Un po’ come accade quando si cerca uno psicanalista, e la scintilla che deve scattare, in fondo, è molto simile. Attenti però alle facili infatuazioni, il rischio è sempre quello di rimanere scottati. Diffidate da consulenti che si occupano direttamente della compravendita delle opere o che inseriscono nelle proprie tariffe una percentuale sugli acquisti. Un buon consulente non deve mai avere un interesse economico diretto sugli acquisti anche perché, tra i suoi compiti, c’è anche quello di impedirvi di comprare opere che non fanno al caso vostro.