C’è una differenza palpabile tra il nitore quasi metallico del cosiddetto Ritratto di Susanna Lunden – in particolare nel rosso purpureo della veste – e le tinte brune della Madonna della Cesta, dove il rosso tende a un terreo arancione. Eppure si tratta dello stesso pittore. E che pittore! Pieter Paul Rubens, campione del barocco.
Siamo di fronte a due esempi differenti dei possibili modi in cui lo strato superficiale di vernice può incidere sulla resa cromatica e luminosa di un’opera pittorica. Nel primo caso, saturando le tinte e facendole brillare. Nel secondo caso, all’opposto, smorzando gli eccessi dei colori più accesi per meglio accordare l’insieme. Un raccordo dovuto ai naturali inscurimento e ingiallimento della vernice, secondo un effetto probabilmente previsto da Rubens stesso.
Che cos’è la vernice? Quando si parla di arte e di restauro, con il termine vernice si intende quello strato protettivo trasparente steso sulla superficie di un dipinto nella fase finale della produzione dell’opera pittorica: il termine francese vernissage – che oggi dà genericamente il nome all’inaugurazione di una mostra – indica proprio l’azione di verniciare i quadri, eseguita appena prima della loro esposizione pubblica.
Come si è visto sopra, la vernice non ha, però, esclusivamente il compito di proteggere l’impasto di pigmenti e legante – la cosiddetta pellicola pittorica – dall’esposizione all’ambiente, ma serve anche a calibrare la resa cromatica e superficiale del dipinto donandogli, ad esempio, brillantezza e profondità, oppure affievolendo i contrasti.
Ma di cosa è fatta la vernice? Tradizionalmente, per la pittura a olio sono utilizzate vernici composte da resine naturali disciolte in solvente. Per fare qualche nome, citiamo tra le più usate la damar, la mastice, la sandracca e la copale. In epoca recente, alle resine naturali sono subentrate resine sintetiche, ad esempio di tipologia acrilica, che dovrebbero essere più stabili nel tempo.
Plinio racconta dell’atramentum utilizzato anche dal mitico pittore greco Apelle, il Raffaello Sanzio dell’antichità. Con questa parola latina, che in italiano può essere resa come inchiostro, si intende una sostanza scura e liquida di probabile origine bituminosa, stesa dal pittore sull’opera finita, con lo scopo non solo di proteggerla da polvere e sporcizia, ma anche per fare in modo che la brillantezza dei colori non offendesse lo sguardo, dando la sensazione all’osservatore di guardare attraverso un velo di talco, cosicché veniva aggiunta un’impercettibile nota di severità ai colori particolarmente brillanti.
Già in antichità, quindi, la vernice è vista come una sorta di pelle dell’opera, con una funzione non solo conservativa ma anche estetica. Una pelle che, nella modernità, è da alcuni percepita come di troppo.
L’arte degli ultimi due secoli ha prosperato facendo spesso a meno dell’uso di vernici protettive. È risaputo che gli impressionisti non fossero molto amici del vernissage.
Per alcuni, poi, le qualità tattili della pellicola pittorica rischiavano di essere compromesse, per cui della stesura di uno strato di vernice non se ne parlava nemmeno. Un esempio celebre è Picasso, che amava la superficie ruvida e irregolare dei suoi dipinti a tecnica mista, spesso e volentieri non verniciati.
Nell’ambito della conservazione, il problema dell’inscurimento naturale della vernice protettiva e il rapporto del restauro con esso non costituisce tanto un argomento filologico quanto filosofico. Se una vernice si è inscurita troppo fino a rendere poco leggibili, ad esempio, le variazioni tonali di un dipinto, è lecito assottigliarla se non rimuoverla, oppure un’operazione del genere significherebbe contraffare il dipinto?
È una problema che non troverà qui soluzione, ma che ci serve per ricordare che Cesare Brandi, gran maestro del restauro all’italiana, litigò con i restauratori della National Gallery di Londra per questo. Non proprio il sesso degli angeli, quindi.
Tra il 1949 e il 1950, Brandi pubblicò sul Burlington Magazine un articolo nel quale, senza mezzi termini, criticava i metodi di pulitura messi a punto dei restauratori inglesi, secondo lui estremi e con poca o nessuna considerazione per quella che definiva patina – cioè la pelle di velature e vernici invecchiate al di sopra della superficie pittorica – che essi si affrettavano a rimuovere integralmente snaturando, secondo lui, l’opera in maniera irreversibile.
Uno dei più celebri dipinti spuliti dagli inglesi è il Bacco e Arianna di Tiziano, capolavoro del maestro cadorino, interessantissimo anche per l’uso di un enorme campionario di pigmenti, praticamente tutti quelli presenti all’epoca sul mercato. Visto con i nostri occhi pigri, abituati al colore retroilluminato degli schermi RGB, il dipinto appare come un bellissimo trionfo di colori, ma per gli occhi più raffinati di Brandi e dei suoi contemporanei, l’opera uscita dal restauro appariva piuttosto come un pugno nell’occhio.
La querelle tra Brandi e gli inglesi, nota come cleaning controversy, si dipanò in un serrato botta e risposta giornalistico che coinvolse i restauratori d’oltremanica e, in un secondo momento, persino nomi eccellenti come Ernst Gombrich.
Due scuole di pensiero, quella “brandiana” e quella “inglese”, che si differenziavano nel presupposto di riconoscere il valore che il tempo ha sulla materia che compone l’opera d’arte, e, nello specifico sulla vernice, che è la pelle della pittura.