San Paolo è la più grande città “italiana” dopo Roma. Qui, a partire dal 1865, si riversò gran parte dei flussi migratori che dal Veneto si dirigevano verso l’America Latina, attratti dal miraggio di una nuova “terra promessa”. Su questa rotta che, idealmente, unisce Padova alla città brasiliana, si muove oggi Marco Maria Zanin (n. 1983), giovane fotografo veneto che l’11 giugno prossimo, all’Ambasciata Brasiliana di Roma, celebrerà questa drammatica storia umana con la mostra Demonumento dove saranno esposti lavori tratti dalle serie São Paulo (2013), Os Argonautas (2014) e Antigo Hospital Matarazzo (2014). «Demonumento è una parola che non esiste – mi spiega durante una chiacchierata allo stand della galleria Valeria Bella a MIA Fair 2015, dove sono esposti alcuni dei suoi ultimi lavori della serie Cattedrali Rurali -, ma che rimanda alla cancellazione della memoria di questa migrazione, divorata dall’esplosione urbana di San Paolo. Sono passati 150 anni dalla prima nave di migranti veneti che oggi rappresentano la comunità italiana più ampia in Brasile. Veneti che tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra hanno attraversato l’oceano, rischiando la vita, in cerca di fortuna».
«Il mio sguardo è su questo impulso originario al viaggio, alla migrazione, a cui ho dedicato la serie Os Argonautas. Un lavoro – prosegue Zanin – che associa il viaggio dei migranti a quello, mitico, degli Argonauti che, guidati da Giasone, andarono alla ricerca del Vello d’Oro. Oggi la migrazione è un argomento scottantissimo, che tocca vari temi, da quello della terra e dell’identità fino ad arrivare alla segregazione razziale. Guardare tutto ciò da un punto di vista mitico e archetipico ci aiuta a capire le spinte universali che stanno alla base di questo fenomeno che, forse, è il più antico della storia umana».
Nicola Maggi: Un tema che rimanda in modo abbastanza diretto anche al tuo lavoro sulle Cattedrali Rurali, che poi sono anche i luoghi abbandonati da queste persone che se ne sono andate, e simbolo di un’identità in pericolo…
Marco Maria Zanin: «Quello delle Cattedrali Rurali è il mio progetto principe, quello su cui ho costruito il mio desiderio di continuare su questa strada. Ovviamente non sono cattedrali nel vero senso della parola, ma edifici rurali in abbandono nelle campagne venete. Le chiamo così perché condensano in sé tutta una serie di valori simbolici e identitari, che è impressa in queste forme e in un modo di costruire e di trasformare il territorio che era molto legato alla terra. Questo rapporto è fondamentale ed è, secondo me, radicalmente contemporaneo, perché oggi bisogna assolutamente riorientare la prua della nave della comunità umana verso questo legame con la terra».
N.M.: Tra gli ultimi lavori di questa serie ce ne sono alcuni, che avevi portato ad Arte Fiera, in cui hai adottato la tecnica dell’emultion lift, creando delle sovrapposizioni di carte veline. Come nasceva questa idea?
M.M.Z.: «Fondamentalmente dal desiderio di uscire da un tipo di fotografia classica per nutrire una mia vena più innovativa. Ma dietro questa sperimentazione c’è anche un discorso sul valore simbolico del supporto: la velina è un materiale povero, effimero, che accentua ancor di più lo stato dei queste case rurali e dell’identità che esse rappresentano».
N.M.: Un materiale che, peraltro, fa venire in mente anche le veline dei vecchi album fotografici, dove dietro ognuna di questa carte è conservato il ricordo di un passato o, in questo caso, della terra da dove questi migranti sono partiti…
M.M.Z.: «Esatto, e pensa che uno dei lavori che esporrò all’Ambasciata brasiliana a Roma è proprio un dittico composto da una di quelle veline che separavano le fotografie negli album e da una grande stampa che riproduce il retro di una vecchia fotografia di migranti. E’ un lavoro sulla memoria. Tu vedi questa stampa e non capisci subito che cosa sia, perché ci sono tutte le muffe e i segni che lascia il tempo sulla carta. Messa vicino a questa velina crea un effetto che dà proprio l’idea di come la memoria venga cancellata e, nel frattempo, resti in qualcosa che è naturale ed eterna come i segni del tempo. E poi questa velina è incredibile, perché ci sono rimaste impresse le sagome delle fotografie che una volta erano dietro ad essa. Non vedi i soggetti, ma solo il rettangolo delle foto e in questa assenza si crea la grande presenza di tutte le storie di questi migranti».
N.M. Fondamentale, per la tua ricerca artistica, è il pendolarismo tra San Paolo e Padova. Due città dove vivi solo quando è inverno…
M.M.Z.: «La scelta di risiedere in queste due città solo in inverno è legata alla cifra stilistica del mio lavoro, in cui la dimensione del silenzio è molto importante. E l’inverno è proprio quel momento dell’anno in cui c’è tutto un movimento sotterraneo di trasformazione, c’è la solitudine. Se mi chiedi perché proprio a San Paolo, ti dico perché è una delle metropoli dove è possibile cogliere a pieno quelle che sono le possibilità nuove che si aprono dalle contraddizioni generate dallo sviluppo economico e urbanistico contemporaneo che qui innesta modelli occidentali su una base culturale diversa, dando vita anche ad energie creative nuove che sfuggono a quelle che sono le categorie a cui siamo imbrigliati in Europa. E’ un modo per tuffarsi in qualcosa di radicalmente opposto alla nostra realtà. Poi io vivo a Padova che è una città piccola e legata alla terra che, come sai, è uno dei temi principali del mio lavoro. E quindi c’è questa dicotomia, questo contrasto, tra la terra e il cemento che, se vogliamo, è rappresentato da San Paolo. Tutto ciò mi permette di fare un confronto e di operare una sintesi tra questo rapporto con la terra, che ha caratterizzato il passato, e l’esplosione urbanistica di una città contemporanea come San Paolo. Vivere tra queste due città mi permette di lavorare su questi temi e su quello della migrazione in maniera molto più profonda, perché lo vivo in presa diretta e attraverso i libri».
N.M.: E proprio alla città di San Paolo, hai dedicato uno dei tuoi ultimi progetti che presenterai anche a Roma…
M.M.Z.: «Ho fatto un lavoro proprio sul centro della città di San Paolo. E’ un progetto dedicato al centro della città, in cui leggo le architetture come elemento simbolico attraverso il quale decifrare i valori e le aspirazioni su cui si costruisce una comunità. E’ un lavoro di conoscenza nei confronti della città. Adesso, invece, la mia attenzione è molto più legata a quello che succede nella strada, che è un luogo fisico in cui tutte le contraddizioni della società brasiliana si manifestano spontaneamente. Lavoro molto sul fenomeno dei graffiti, in particolare su quelli che in portoghese si chiamano pichação. Sono tag realizzate in posizioni elevatissime come le facciate di palazzi abbandonati, calandosi con una corda e rischiando la vita. Può sembrare folle fare una cosa del genere, ma rappresentano, per le comunità cittadine, una forma di rivendicazione della propria identità in una città che li ha esclusi, divorandoli».