Lasciata la prima sezione, Garden Of Flows, dirigo verso le sedi della Out of Control Room, seconda tappa della mia visita a di Manifesta12. I progetti inclusi in questa sezione tendono, agli occhi degli organizzatori, a voler rendere ciò che è astratto accessibile e aperto al dibattito, restituendo tangibilità alle reti invisibili nel regime dei flussi digitali, con particolare riferimento all’evoluzione dell’amministrazione del potere. La giovane età degli artisti chiamati a esprimere con il loro lavoro tutto questo mi porta invece a riflettere su quanto l’uomo ha perduto in questi ultimi 30-40 anni in termini di “rapporti umani”. E’ vero che le informazioni girano oggi prepotentemente e, aggiungerei, inevitabilmente, sempre più per via telematica e i centri del potere sono e saranno sempre più forti: chi controlla l’informazione, si dice, oggi controlla le masse. Ma tutte queste opere in mostra devono invece far pensare a quanto noi uomini abbiamo lasciato la nostra vita nelle mani degli altri, ossia ai mezzi d’informazione dai quali acquisiamo informazioni e ai social network.
Qui in Sicilia ci troviamo in una terra che ha una lunga storia di rapporti con altri popoli: il siciliano non è una lingua che deriva dall’italiano, ma al pari di questo, direttamente dal latino volgare, e costituì la prima lingua letteraria italiana già nella prima metà del XIII secolo nell’ambito della Scuola Siciliana. Mi piace partire da questo per riaffermare la differenza e la superiorità dell’uomo sui moderni mezzi di (dis)informazione. La mente che pensa, la mano che scrive e gli occhi che leggono per poi parlare e comunicare. Un equilibrio perfetto come è la natura, fulcro e tema centrale di questa manifestazione. Bisogna riportare l’uomo al centro di tutto e in fin dei conti gli artisti questo ci vengono a dire.
Tappa #2: la Out of Control Room
Il mio secondo giorno di visita a Manifesta12, parte da Palazzo Ajutamicristo (via Garibaldi, 23), un palazzo nobiliare del XV secolo, dove James Bridle (UK, 1980) con l’installazione Citizen Ex (2015) permette di tracciare, attraverso un algoritmo creato ad hoc, il percorso delle informazioni in uscita e in entrata che si generano ogni volta che accediamo alla rete. Tania Bruguera (Cuba, 1968) che con Article 11 (2018) racconta la storia della battaglia, ancora in corso, intrapresa gli abitanti di Niscemi, che si oppongono all’installazione e ai relativi effetti nocivi che comportano le antenne della marina degli U.S.A. per il pilotaggio a distanza di droni a scopo bellico.
Filippo Minelli (Brescia, 1983) con Across the Border (2010-in corso) commissionando delle bandiere a performer provenienti da tutte le aree geografiche a cui Palermo è connessa, ci ricorda che una nazione e/o le nazioni sono oramai non più soggetti sovranazionali, ma un insieme di persone che con le loro unicità e specificità le rendono uniche, come tante verdure in un minestrone che apportano ognuna il loro contributo per esaltarne il sapore finale.
Trevor Paglen (U.S.A., 1973) denuncia con, It Began as a Military Experiment (2017), quanto ormai l’uomo abbia prodotto dei software per far ragionare esclusivamente le macchine/computer e completamente inutili per l’occhio dell’uomo. L’argomento riporta alla mente il film del 1983 Wargames – Giochi di Guerra diretto da John Badham che proponeva tematiche pacifiste tipiche di quegli anni caratterizzati dalla corsa agli armamenti e dal dispiegamento degli euromissili, dove una rudimentale intelligenza artificiale non riuscendo a discriminare fra realtà virtuale e effettiva rischia di scatenare una guerra termonucleare globale che il protagonista (Matthew Broderick) riesce a evitare con uno stratagemma all’ultimo secondo.
Paglen, allo stesso modo, ci ricorda che non sempre le cose potrebbero andare alla stessa maniera (all’epoca del film il Presidente degli U.S.A. Ronald Regan si interrogò sulla possibilità che tale evenienza potesse verificarsi e quindici mesi dopo furono introdotte nuove procedure per rendere più sicuro l’arsenale nucleare americano da intrusioni esterne) e come, magari, potrebbe davvero avvenire quello che ci viene raccontato nei fumetti della Marvel Comics, dove il supereroe Henry Pym progetta Ultron, un potentissimo robot creato per portare la pace nel mondo ma che si ribella poi al suo padrone quando arriva alla conclusione che l’unico modo per portare a termine la sua missione è l’estinzione della razza umana.
Infine significativa, oltre che molto interessante risulta The Third Choir una installazione di Lydia Ourahmane (Algeria, 1992), prima opera d’arte a essere legalmente esportata dall’Algeria dopo l’implementazione delle restrizioni sul movimento delle opere d’arte regolato da una legge del 1962 dopo l’indipendenza dalla Francia.
A Palazzo Forcella (Foro Italico Umberto I, 21) – che fu sede dal 1937 al 1940 della Galleria Mediterranea diretta da Lia Pasqualino Noto –, incontriamo due lavori di Kader Attia (Francia,1970): un video, The Blody’s Legacies. The post-Colonial Blody, in cui lo stesso artista propone una riflessione sulla rappresentazione del corpo (tema a lui molto caro) post-coloniale, attraverso un’intervista a quattro persone i cui progenitori furono schiavi o membri di popolazioni colonizzate, e Untitled (2018), una scultura che diviene metafora della fragilità umana attraverso la rappresentazione di un pezzo di legno attraversato da una crepa riparata con delle graffe.
Molto forte emotivamente è l’installazione video dei Forensic Oceanography – Lorenzo Pezzani (Trento, 1982) e Charles Heller (U.S.A., 1981) – Liquid Violence, in cui è compreso il video Death by Rescue (2016) che ricostruisce gli effetti letali delle decisioni prese dall’Italia e dall’Unione Europea al fine di limitare le attività di ricerca e soccorso in mare. Stessa angoscia lascia l’installazione video Untitled (near Parndorf, Austria) (2018) di John Gerrard (Irlanda, 1974) che ci parla di un furgone che conteneva i corpi di 71 migranti morti al suo interno per soffocamento.
Interessanti, poi, i lavori di Patricia Kaersenhout (Olanda, 1966): The Mask of Cruelty (2018), con ci parla della multetnicità di Palermo, conseguente alle sue varie incursioni straniere, e soprattutto The Soul of Salt, l’immensa e lucente montagna di sale che riempie quasi totalmente la sala e per molti divenuta il manifesto di questa edizione di Manifesta, dove il visitatore è invitato a prendere del sale da portare a casa per poi scioglierlo nell’acqua al fine di simboleggiare il dissolversi dei dolori passati.
Vi è poi il video di Erkan Özgen (Turchia, 1971) Purple Muslin (2018) sui traumi e le violenze delle donne rifugiate e su come queste cerchino di convivere con essi. Arriviamo poi al fondamentale lavoro di Laura Poitras (U.S.A., 1964) che forte anche del suo essere nata nella prima metà degli anni ‘60 ha vissuto più degli altri gli scenari che ho sopra descritto e può parlare con cognizione di causa della forte e storica opposizione dei siciliani alle basi militari statunitensi sull’isola.
Al Palazzo del Mutilato (o Casa del Mutilato) (via Alessandro Scarlatti, 12) chiaro esempio di appartenenza alla corrente del razionalismo la cui tipologia rappresentava per la propaganda del Regime un luogo di celebrazione legata alla figura del mutilato di guerra come homo novus, vediamo la video installazione Unending Lightning (2015-in corso) di Cristina Lucas (Spagna, 1973) dove vengono mostrati dei bombardamenti aerei sulle aree civili.
Infine a Palazzo Trinacria (via Butera, 24) primo edificio nato a Palermo appositamente come albergo e nel quale Tomasi di Lampedusa ambientò le ultime ore del Gattopardo, il Principe di Salina, Taus Makhacheva (Russia, 1983) con la video installazione Baida (2017) riflette sulla natura precaria dell’esistenza umana e sulla lotta per la sopravvivenza contro le schiaccianti forze naturali e economiche.