Hoboken, New Jersey, 22 gennaio – Una giornata troppo bella per non uscire. Il cielo completamente libero da nuvole, un sole abbagliante sorto da poco sullo skyline di Manhattan prospiciente la mia finestra. Le temperature previste non dovrebbero scendere sotto i -4°C (ieri sono arrivate anche a -15°!). E allora cappotto, berretto di lana, sciarpa e si va: con il bus 123 in mezz’ora sono nel cuore di Manhattan.
Si stima che le gallerie d’arte a New York City — includendo quindi, oltre Manhattan, anche Brooklyn e Queens — siano almeno 1.500: probabilmente la maggiore concentrazione al mondo. Manhattan ha da sempre fatto la parte del leone, in particolare destinando aree ben precise all’ambito e al mercato dell’arte contemporanea. Zone che nel corso degli anni si sono avvicendate con alterne fortune: oggi, ad esempio, SoHo e Tribeca — fulcro dell’arte contemporanea qualche decennio fa — hanno perso molto del loro appeal a favore di Chelsea.
Quello che caratterizza le migrazioni, che ciclicamente i maggiori galleristi “di tendenza” affrontano, è probabilmente la ricerca di spazi consoni alla produzione e alle esposizioni, guardando con un occhio ai prezzi degli stabili, con l’altro all’innesco di un trend d’eleganza un po’ radical chic: non a caso quasi tutte le zone dedite al mercato “alto” dell’arte newyorkese sono aree “recuperate”. A SoHo si trattava di loft ricavati da vecchie palazzine cast-iron un tempo sedi di manifatture industriali; a Chelsea sono stati ristrutturati grandi garage e magazzini; il Bowery solo un paio di generazioni fa era la Suburra di Manhattan, oggi trasformato in un quartiere residenziale dove Sperone Westwater ha fatto costruire da Foster + Partners un’avveniristica galleria a otto piani dotata anche di una sala espositiva mobile. Non mancano tuttavia zone storicamente eleganti, come l’Upper East Side, dove le gallerie occupano case e ville Gilded-Age (lo stile dell’“età dell’oro”: il periodo che va dal 1870 al 1900 circa).
Chelsea, comunque, è oggi il fulcro del mondo dell’arte newyorkese, con più di 200 gallerie in meno di 3 km². E all’interno dello stesso Chelsea vi sono strade dove si concentrano top galleries, praticamente l’una accanto all’altra. Una di queste strade è la 24ma Ovest, quella verso cui oggi mi incammino.
Scendo verso sud sull’8va Avenue, giro a destra sulla 24ma e supero un isolato con grandi palazzi che sono forse stati un tempo caseggiati popolari. Sono nel cuore del quartiere. Zona industriale tra Ottocento e Novecento, abitata soprattutto da immigrati irlandesi; theatre district e centro cinematografico a inizi Novecento; propaggine della cultura alternativa del confinante Greenwich Village fino a tutti gli anni Settanta (il famoso Chelsea Hotel…); oggi quartiere multietnico — popolato anche da una numerosa comunità LGBT — che si va trasformando in zona residenziale, con un processo di gentrificazione che vede, al momento, palazzi raffinatamente ristrutturati e vecchi edifici “poveri” fronteggiarsi talvolta da un lato all’altro della strada. Tra il 2009 e il 2015 è stata aperta la famosa High Line, un parco lineare realizzato su una sezione in disuso di una ferrovia sopraelevata: uno dei capolinea è il nuovo Whitney Museum of American Art, progettato da Renzo Piano e inaugurato proprio nel 2015.
La parte di 24ma che cerco è racchiusa tra la 10ma e l’11ma Avenue: poco più di duecento metri, con alcune delle gallerie più importanti del mondo. Inizio dalla Lisson (504 West 24th Street) che in questa sede (l’altra è sulla 10ma Avenue) propone una collettiva dal titolo The rest, con opere di sei artisti nati tra il 1979 e il 1993: Van Hanos, Allison Katz, Jill Mulleady, Jeanette Mundt, Nolan Simon e Issy Wood. Punto di contatto, pur nella differenza degli approcci stilistici, è un figurativo che sembra voler cercare una cifra attuale e convincente, superando i pur evidenti retaggi pop, transavanguardistici e Neue Wilden. Gli esiti migliori sono forse quelli di Van Hanos, in particolare con il grande Portrait of our Mother as a Mountain dai colori accesi, ma il livello generale non è confortante.
Al civico 515 c’è la Gladstone Gallery che propone una personale dell’artista svizzera Claudia Comte (1983): The Morphing Scallops. Tra Minimalismo e Op art, grandi dipinti murali che creano l’illusione ottica di linee in movimento: niente di nuovissimo, ma efficace.
Segue, al 537, una delle tre sedi della Pace Gallery, con una personale di James Siena (1957), artista che pratica un’astrazione lineare basata su “algoritmi visivi”, risultato di regole predeterminate applicate a pattern geometrici. Il risultato, almeno nelle opere di questa mostra, ha una connotazione estetica molto “etnica”, che rimanda a certa pittura contemporanea africana.
Un’altra collettiva è alla Mary Boone Gallery (al 541), con nove tele di grandi dimensioni di altrettanti artisti: la selezione è alquanto eterogenea e forse anche stravagante. Tra diverse opere decisamente brutte, si salvano un Untitled di Francesco Clemente — interessante se non altro perché lontano dal suo stile più conosciuto — e Pool of radiance di Peter Halley.
Concludo la carrellata con una delle sedi di Gagosian (al 555), chiusa per l’allestimento della personale — con opere nuovissime — di Georg Baselitz Devotion, che aprirà i battenti dopodomani.
Per concludere la giornata, mi dirigo all’altra sede della Lisson. Percorrendo la 10ma Avenue, mi colpisce un enorme stendardo sulla facciata di un palazzo che dà sulla High Line, che recita If Donald Trump really wants to keep all the aliens out, he might as well build a wall around our galaxy, too (and make Andromeda pay for it): «Se Donald Trump vuole davvero tener fuori gli stranieri [ma il gioco di parole è sul termine alien] potrebbe anche costruire un muro attorno alla nostra galassia (e farlo pagare ad Andromeda)».
Poco più in là, un enorme murale dipinto su un palazzo dallo street artist brasiliano Eduardo Kobra, che ritrae Warhol, Frida Kahlo, Haring e Basquiat come i quattro volti dei presidenti scolpiti nel Mount Rushmore.
Al 138 arrivo alla sede della galleria. Qui è in corso una personale dell’artista giapponese Tatsuo Miyajima (1957): Innumerable Life / Buddha. Il lavoro di Miyajima si concentra sui numeri e sul tempo: in questa mostra/installazione quattro pannelli di diverse dimensioni supportano, nella penombra della sala, centinaia di LED rossi, ognuno dei quali effettua, a differente velocità, un countdown da 9 a 1, spegnendosi temporaneamente al momento dello zero.
Alcuni LED hanno una velocità percettibile, altri un ritmo talmente lento da non poter essere colto: si genera una spontanea aspettativa verso un ideale momento in cui ci sia un azzeramento e una ripartenza generale di tutti i LED, come un nuovo ciclo, cosa ovviamente possibile ma in un’ottica di attesa potenzialmente eterna. «Keep changing, connect with everything, and continue forever [“Continua a cambiare, connettiti con tutto, e continua per sempre”]» è la dichiarata filosofia, fortemente influenzata da istanze buddhiste, di Tatsuo Miyajima.