Sandro Del Pistoia nasce a Viareggio nel 1975 e, dopo aver studiato architettura a Firenze, nel 2005 si trasferisce a Londra e nel 2006 inaugura il suo percorso di produzione artistica con la partecipazione alla XII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara. Nel 2007 consegue la laurea in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara, oggi lavora e vive a Pietrasanta, culla del contemporaneo.
Sandro utilizza tecniche scultoree differenti per dar vita a installazioni polimorfe sempre nuove, inseguendo un dinamismo che ripropone, espandendola e contraendola all’infinito, la struttura pluricellulare dei tessuti degli organismi viventi, il perpetuarsi del ciclo della vita e della morte.
Le sue sculture sono fatte di moduli intrecciati, fitti reticolati di elementi modulari esagonali di legno di tiglio, betulla e noce collegati con giunti di pelle oppure in metallo, che ripetendosi creano pieni e vuoti in perfetto equilibrio, dando vita a strutture che dialogano con l’ambiente circostante o con le forme e le architetture in prossimità, senza stravolgerle ma aggiungendo sempre una nuova forma, una nuova lettura.
Una ricerca che si sviluppa in geometrie che vivono di trasparenze e di aria, strutture di legno, ferro o pelle, che aggiungono alla loro forma le forme circostanti, che si colorano dei colori che le circondano. “I lavori di Sandro non sono solo bellezza, sono ricerca di elevazione al sublime, recupero di una condizione primordiale, riflessione sulla contemporaneità, sul ruolo dell’umanità e della natura e sulla coscienza umana rispetto al prossimo.”
È proprio sull’analisi del pensiero dietro ad opere come Grafene, che costituiscono un nucleo di svariate forme e dimensioni, prodotte in circa dieci anni, che abbiamo lavorato e prodotto la scheda tecnica di Project Marta – Monitoring Art Archive pensata per essere un documento di facile e immediata consultazione per la gestione degli svariati materiali coinvolti dagli artisti nell’arte contemporanea.
A partire dall’intervista con l’artista, abbiamo appurato come Grafene sia una serie in divenire, per la precisone di incisioni nate dall’intuizione di farsi vuoti perché tutto ciò che arriva possa essere accolto, contenuto, a cominciare dal contesto in cui sono ambientate.
In questi casi specifici l’opera non deve essere incorniciata e la patina lucida che la caratterizza è parte fondamentale della lettura dell’opera, quindi è sempre bene avere cura di mantenerla tale con una manutenzione ordinaria programmata.
Una testimonianza che Project Marta raccoglie e documenta per tutte le opere della serie, redigendo una carta d’identità per ognuna, raccogliendo tutte le informazioni utili a conoscerle in profondità e quindi a tutelarle nel corso della loro esistenza.
Benedetta Bodo di Albaretto: Grafene è una scultura dall’elevato potere intrinseco, è infatti parte di una serie ispirata all’omonimo materiale, caratterizzato da notevolissime prestazioni, seppur costituito da uno strato monoatomico di atomi di carbonio. Un’opera incisa nel morbido e flessibile legno di Samba. Come si lega questa scelta stilistica al tuo percorso artistico?
Sandro Del Pistoia: «Le mie sculture possono nascere in un frammento di secondo, da una visione o una conversazione, quando meno te lo aspetti, altre possono invece venire dal fare, tentare, sbagliare. Queste incisioni 3D in particolare nascono dall’intuizione di farsi vuoti perché tutto ciò che arriva possa essere accolto, contenuto. Si tratta di una serie monocroma, come un’ombra su un muro, qualcosa di semplice come una carezza, dove conta soprattutto l’intenzione».
B.B.A.: Grafene è un progetto in divenire, oppure si tratta una serie conclusa? Di quante opere si compone?
S.D.P.: «Questa serie è in divenire, alcuni grandi lavori in ferro di questi anni hanno preteso di essere tradotti in questo linguaggio per una questione di affetto verso di loro, ma anche loro nei riguardi di tutta la narrazione, scomposta, che rappresenta la produzione dello studio. La serie conta attualmente più di venti lavori».
B.B.A.: Vuoi raccontarmi in breve il percorso che ti ha portato a prediligere il lavoro con il legno, l’intaglio, e da cosa nascono le tue preferenze in termini di sperimentazioni anche estreme?
S.D.P.: «Tutte le mie sperimentazioni si tengono alla larga dall’essere estreme e performative, se lo sono state allora significa che mi ero smarrito nella volontà mia o altrui. Non si può negare che talvolta hanno avuto dimensioni spropositate, dettate solo dal voler incorniciare ad un paesaggio scioccante. Il legno è sempre il mio primo pensiero qualsiasi cosa intenda fare, tanto una scultura quanto una pentola. È qualcosa di intrinseco, spontaneo».
B.B.A.: Quali materiali e tecniche hai scelto di utilizzare in questo caso? Sono frutto di un’evoluzione nella tua ricerca?
S.D.P.: «La figura è stata disegnata su tavola e quindi scavata con una fresa verticale, con fiamma e carta vetrata. Solo una brevissima parte della lavorazione di quest’opera in particolare della serie Grafene è legata alla fiamma, è una tecnica che ho usato solo in quest’occasione per una questione di praticità ma non ne ho fatto uso in altre opere.
Tutta la parte carbonizzata è stata poi rimossa, ha reso morbidi alcuni angoli e consumato il legno in modo casuale. La Samba, detto anche Ayous, è un legno che tiene bene il mio trattamento, è un’essenza morbida e leggera, ottima per compattezza di fibra e per essere lavorata. Io l’ho scelto per la sua ottima capacità di resistere a modellazioni sottili, grazie alla compattezza ed assenza di nodi, ed inoltre scegliendo legni stagionati si ha maggiore garanzia di assenza di deformazioni.
L’opera si compone di tavole spesse 10 cm giuntate di costa a dita. La patina è una tecnica molto comune, mi piace perché è un procedimento semplice, divertente ed a tratti incerto. Personalmente la uso per dare un colore, ma l’ho preferita ad una normale pittura per il suo effetto materico e per la possibilità di risultare opaca o lucida. Per me è importante che la patina sia stesa in quantità sufficiente a non far trasparire il legno, che resti opaca nelle profondità e che sia lucidata nella sua parte esterna».
B.B.A.: Molti artisti integrano nella loro opera il concetto di temporalità, di effimero. In questo caso, quanto è importante la testimonianza del passaggio del tempo sull’opera?
S.D.P.: «Una parte di me è attratta dall’idea che il lavoro possa vivere per sempre, l’altra è affascinata dalla possibilità di mutamento e, perché no, di sparizione! Ma io sono tutto e il contrario di tutto, per cui tendo a continuare a sperimentare proprio per affinare la ricerca e la sua permanenza nel tempo».