Proseguiamo con Giorgio Verzotti le nostre conversazioni sulla possibile riscoperta dell’arte italiana degli Anni Novanta. Critico d’arte, oltre che docente presso l’Università Cattolica di Milano, Verzotti è stato curatore capo presso il Castello di Rivoli e il Mart di Rovereto e ha diretto per quattro edizioni, insieme a Claudio Spadoni, Arte Fiera a Bologna.
Attualmente è in corso a Palermo, presso Francesco Pantaleone Artecontemporanea, la sua mostra Milano ’90. Una storia milanese, con lavori di Mario Airò, Stefano Arienti, Maurizio Cattelan, Mario Dellavedova, Massimo Kaufmann, Armin Linke, Amedeo Martegani, Vedovamazzei e Luca Vitone.
L’esposizione cerca di fare ordine tra i tanti artisti che hanno animato un decennio ricchissimo di eventi espositivi, di molti dei quali manca oggi una testimonianza diretta come quella che solo un catalogo ben fatto può garantire. E proprio da una domanda sui cataloghi e la documentazione delle mostre inizia la nostra chiacchiareata.
Roberto Brunelli: I cataloghi non nascono come semplice “souvenir” ma come importante strumento di comprensione e approfondimento delle Opere ivi esaminate. Il fatto che per significative Mostre, e penso su tutte a “Avanblob” firmata nel 1990 dal collettivo di via Lazzaro Palazzi, non sia stato stampato ha penalizzato e/o penalizza il percorso di quegli Artisti?
Giorgio Verzotti: «I cataloghi hanno senso se documentano davvero le opere esposte in una mostra, diventano uno
strumento indispensabile per lo studio dell’opera complessiva di un artista. La sua mancanza, se la mostra assume retrospettivamente una certa importanza, è indubbiamente un limite. Tuttavia molti cataloghi non hanno quella funzione e si mostrano alla fin fine inutili».
R.B.: Sempre in tema di cataloghi essi sono sempre molto ambiti da collezionisti ma anche da storici dell’Arte, laureandi e amanti del bello, può aver senso grazie alla economicità e alla facilità di stampare oggi, stampare magari in print on demand il catalogo di mostre tenutesi in passato?
G.V.: «Penso di sì, può avere senso. Pensa poter ristampare il catalogo di mostre mitiche come Contemporanea, o When Attitudes become Form…».
R.B.: A volte gli Artisti diventano più o meno consapevolmente curatori per mostre di loro colleghi. Vedi questo “passaggio al di là della barricata” come un segno di resa o un’opportunità di crescita umana e professionale per il loro percorso artistico?
G.V.: «La vedo molto positivamente, rappresenta senz’altro un momento di crescita umana e culturale. Ricordo la mostra sull’idea di Barocco curata da Luc Tuymans alla Fondazione Prada a Milano».
R.B.: Anche se negli anni Novanta gli artisti non hanno mai voluto parlare di scuole e riconoscersi in esse, quale era, a suo avviso, la reale situazione nella scena nazionale anche in relazione a quelle che erano state
le esperienze artistiche degli anni Ottanta?
G.V.: «Qualche gruppo c’era, pensa ai Piombinesi. E a Genova all’inizio, Vitone, Viel, Formento & Sossella e altri, non erano proprio una scuola ma c’era affinità. Tuttavia in genere sì, c’erano molte individualità. Il tratto comune era il pensare all’opera come a un progetto con cui intervenire su aspetti della realtà, esistenziale o sociale, reale o virtuale nel senso di costruita dai simulacri mass-mediali. C’era distacco mentale e non pura espressività, come succedeva con la Transavanguardia».
R.B.: Per quali motivi gli artisti italiani della generazione anni ‘60, se si esclude Cattelan, non sono riusciti a ottenere i riconoscimenti dei loro coetanei inglesi? Dove sono da ricercare, a suo avviso, le cause di questo
mancato apprezzamento?
G.V.: «Il motivo è sempre quello, l’inesistenza di istituzioni pubbliche capaci di promuovere i nostri artisti fuori dal nostro Paese. Cattelan e Vanessa Beecroft hanno ottenuto un successo internazionale perche si son dati da fare loro, andando a vivere fuori, creando loro i contatti giusti».
R.B: Convieni che oggi occorra sempre più parlare degli anni Novanta e di quanto il messaggio trasmesso da quella generazione di artisti, nati all’incirca tra il 1950 e il 1960, abbia anticipato in quel decennio quanto sta succedendo oggi nella società e nel mondo in cui ci troviamo a vivere, tanto da essere ancora di estrema attualità?
G.V.: «Ne sono sempre stato convinto. Gli anni Novanta, non solo in Italia, sono stati il periodo più
interessante e i migliori della mia vita professionale».
R.B.: Che ruolo potrebbe avere, in tutto questo, il collezionismo italiano ed internazionale?
G.V.: «In Italia il collezionismo privato è stato ed è essenziale. Senza i prestiti dei collezionisti per le mostre neanche il Castello di Rivoli potrebbe lavorare ai livelli alti a cui lavora. E cito il museo italiano più noto al mondo. Ma anche fuori d’Italia, i musei americani hanno collezioni permanenti di grande qualità grazie alle donazioni dei privati. Dai collezionisti privati sono nate la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la Fondazione Prada, Palazzo Grassi, tutte istituzioni che funzionano come musei, per inciso proprio ciò che più ci manca».
R.B.: Saresti disponibile a prendere parte a un percorso che dovrebbe, nelle mia idea, concretizzarsi in un progetto espositivo da sottoporre al Ministro della Cultura per essere poi realizzato nel Padiglione Italia in una futura Biennale di Venezia?
G.V.: «Perche no?».
R.B.: Quale sarebbe per te la sede ideale dove istituire un tavolo permanente sull’arte degli anni ‘90 e fare incontrare i critici…
G.V.: «Direi Milano, nel corso degli anni Novanta è stata la capitale dell’arte contemporanea italiana. Qui sono nate in quell’epoca le migliori gallerie private, De Carlo, De Cardenas, Emi Fontana, Guenzani e le altre, c’erano gli artisti, i curatori, i collezionisti, il sistema dell’arte italiano ha cominciato a funzionare a Milano».