La 59. Biennale di Venezia ha finalmente potuto accogliere il suo pubblico dopo tre anni di attesa, una gestazione che ha evidentemente permesso una curatela di alta qualità, tanto nei padiglioni Nazionali che nella mostra “The Milk of Dreams” (Il Latte dei Sogni) curata da Cecilia Alemani.
La parola gestazione racchiude l’essenza del progetto: la volontà di ripercorrere la storia – non soltanto dell’arte, ma dell’umanità – attraverso una lente femminile. Femminile, non femminista: in questa differenza sta il valore del lavoro della curatrice, che non soltanto è riuscita ad offrire una rilettura della nostra storia come specie e come società, ma ha probabilmente gettato le basi per un nuovo capitolo del discorso artistico internazionale.
Prima curatrice donna della Biennale in 127 anni di storia della più importante manifestazione artistica del mondo, la Alemani ha dichiaratamente incentrato la mostra sulla rappresentazione delle artiste donne e/o gender non-conforming. Tuttavia, come da lei stessa dichiarato, questa non è una mostra che intende riflettere in modo didascalico sul divario di genere, bensì restituire una narrazione equa della storia biologica e culturale dell’uomo. Pertanto, mira e riesce perfettamente, a colmare quei vuoti e retroscena a cui sono state relegate le donne nello sviluppo dei linguaggi artistici. Per questo “The Milk of dreams” apre la strada per una rivoluzione linguistica e visiva.
Distaccandosi dalla rigidità accademica e agguerrita di quel femminismo contemporaneo che nell’arte occidentale sempre più tende a diventare un mero trend (come spesso accade con le grandi tematiche – negli anni passati il trend dell’immigrazione, il trend dell’Antropocene…), la mostra, divisa come sempre tra Arsenale e Giardini, traccia i passaggi della nostra evoluzione mettendo in luce il contributo delle donne con un approccio morbido, immaginifico e positivo.
Il titolo è tratto da un racconto di Leonora Carrington, che tratteggia per i suoi figli personaggi surreali, figure ibride, talvolta inquietanti, che vivono in un mondo dove tutto e tutti possono trasformarsi e cambiare.
“The Milk of dreams” funziona quindi come uno statement: il latte è il nutrimento che proviene dal corpo femminile, luogo dove avviene la prima metamorfosi dell’uomo, che continua in un processo, tanto biologico quanto simbolico, di evoluzione insieme al pianeta e agli altri essere viventi. Questa evoluzione è descritta nella mostra in modo non-lineare, immaginifico e alternativo, nonostante le cinque “time-capsules” volute dalla curatrice e un’impronta quindi fortemente storica nella selezione degli artisti.
L’impressione è quella di attraversare un atlante, più che una linea temporale, a metà tra il reale e il surreale. Nelle parole della Alemani: “Le capsule tematiche arricchiscono la Biennale con un approccio trans-storico e trasversale che traccia somiglianze ed eredità tra metodologie e pratiche artistiche simili, anche a distanza di generazioni, creando nuove stratificazioni di senso e cortocircuiti tra presente e passato.”
Mentre l’umanità riemerge a fatica dalla pandemia, affacciandosi a nuove sfide climatiche e politiche, si delinea un orizzonte culturale da osservare con nuove lenti, quella della parità tra i generi nella società e tra le specie sul pianeta – ma anche quella dell’immaginazione, strumento che permette di dischiudere nuovi futuri possibili.
La metamorfosi come emancipazione è espressa nella prima capsula tematica “La culla della strega” nella storica sala sotterranea del padiglione Centrale ai Giardini, con le opere di artiste delle avanguardie storiche: Surrealismo, Futurismo, Haarlem Renaissance, Bauhaus, Negritude).
Donne ribelli come Leonora Carrington, Leonor Fini, Carol Rama e Dorothea Tanning, che hanno utilizzato il regno del fantastico come arma contro l’idea di uomo unitario.
La seconda capsula, “Tecnologie dell’incanto”, racconta il rapporto tra il corpo e la tecnologia, presentando le avanguardie dell’Arte Cinetica e Programmata sempre attraverso la lente femminile – ed è in effetti sorprendente ripercorrere quel pezzo della nostra storia dell’arte tramite i lavori di artiste rimaste talvolta all’ombra dei colleghi uomini, come Grazia Varisco o Lucia di Luciano.
La terza capsula, “Corpo orbita”, accoglie i lavori di artiste che hanno esaminato il linguaggio come forma espressiva visuale, come ad esempio Carla Accardi.
Le avanguardie storiche delle capsule temporali si intrecciano con le ricerche contemporanee in un dialogo fluido, illuminando i punti di contatto attraverso la storia.
Corpi ibridi, talvolta grotteschi, figure oniriche e contorte fanno da filo conduttore nei dipinti di Christina Quarles, dove corpi colorati si intrecciano diventando quasi astrazione; nelle installazioni di Jana Euler; che offre uno sguardo satirico sulla condizione umana associandola al mondo animale, con gigantesche rappresentazioni di insetti o minuscole sculture di squali; e ancora nelle grandi figure mostruose, fragili, fluorescenti e spaesate di Miriam Cahn (al momento in mostra anche all Fondazione ICA Milano).
Un’intera stanza è dedicata a Paula Rego, che come sempre non risparmia la tragicità e la crudezza nella narrazione di quel lato animalesco insito nell’uomo che porta alla violenza, anche di genere.
Ai Giardini troviamo la giovane Ambra Castagnetti (Genova, 1993) che contribuisce a questa introspezione sul corpo metamorfico con diverse installazioni che richiamano tavole operatorie in cui esseri animali e vegetali si sono uniti in forme sinuose di ceramica.
Tra le giovani artiste italiane c’è anche Chiara Enzo (Venezia, 1989) con una costellazione di piccole pitture iperrealistiche e iper-dettagliate, raffiguranti minuscole sezioni di pelle, che riportano la lettura del corpo su un piano più intimo.
Il proseguimento della mostra all’Arsenale apre con la gigantesca scultura Brick House (2019), di Simone Leigh, prima donna nera a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia. Essa funge non tanto come un didascalico inno alla black renaissance nell’attuale discorso artistico, quanto come un portale per addentrarsi in un labirinto di sculture e dipinti giganti e muscolari che gridano al rinnovamento e alla positività. Da un punto di vista formale, infatti, la scelta curatoriale si è orientata per lo più verso lavori dal grande formato che ben dialogano con la monumentale e difficile architettura dell’Arsenale.
La scultura di Simone Leigh è circondata da una straordinaria teoria di opere su carta dell’artista Belkis Ayón che raccontano miti degli Abakuá, confraternita afrocubana il cui mito di fondazione si basa sul tradimento di una donna.
Miti e leggende, mondi onirici, meravigliosi, futuristici sono il leitmotiv della mostra in Arsenale, che intreccia corpi umani e natura, realtà e fantasia, passato e futuro.
La narrazione immaginifica prosegue quindi con i grandi dipinti di Ficre Ghebreyesus e Portia Zvavahera, le grandi figure di Felipe Baeza dove nuovi mondi possibili prendono forma per mezzo di corpi in trasformazione da cui spuntano elementi naturali, fogliame, zampe di animali.
Le mutazioni continuano nei grandi dipinti di Solange Pessoa e nei tavoli da laboratorio di Candice Lin in cui materiali organici attraversano varie fasi trasformative. “Una foglia, una zucca, un guscio, una rete, una borsa, una bisaccia, una bottiglia, una pentola, una scatola, un contenitore” (citazione da Ursula K. Le Guin, autrice di fantascienza) è la quarta capsula temporale, in Arsenale, che intende fornire una chiave di lettura alternativa della storia dell’uomo, in cui gli atti di raccolta e cura, prettamente femminili, si affermano come essenziali rispetto a quelli di caccia e cattura.
Infine, la capsula “La seduzione del Cyborg” apre un percorso in cui viene presentata la storia dell’integrazione, reale e fantascientifica, del corpo umano con la tecnologia. Ripercorriamo le tappe delle scenografie Dada e Bauhaus, sempre attraverso uno sguardo femminile (Karla Grosh e la fotografa Bauhaus Maria Brandt, e ancora la futurista Alexandra Exter).
Qui spicca l’installazione di Rebecca Horn, tra le artiste donne che hanno forgiato il linguaggio della time-based art attraverso l’ibridazione della tecnologia con il suo stesso corpo. Due bracci meccanici giganti percorsi da una scarica elettrica fanno avvicinare e allontanare due corna di rinoceronte, imitando il movimento in due tempi del funzionamento del corpo umano (il respiro, il cammino, il battito cardiaco).
Entità in trasformazione con sembianze zoomorfe sono protagoniste nelle colorate e sinuose sculture di Teresa Solar e Marguerite Humeau, come anche nel lavoro della giovane Mire Lee, in cui macchine gigantesche imitano funzioni vitali, facendo colare sostanze liquide e suggerendo una costante mutazione.
Tra i ventisei artisti italiani, all’Arsenale spicca Elisa Giardina Papa con il video “U Scantu”: a disorderly Tale (2021), in cui rilegge il mito siciliano delle “donne di fora” in chiave contemporanea, mescolandolo ricordi d’infanzia e vicende dell’Inquisizione. Queste streghe, o fate, esseri femminili ma anche maschili, umane e animali, bellissime e pericolose, sono presentate da Elisa Giardina Papa attraverso i volti delle “tuners”, adolescenti che guidano biciclette modificate con potenti sound systems nella Sicilia occidentale.
E’ il nostro corpo umano, nella grande maggioranza dei lavori, il protagonista: esplorato nella sua caducità, sessualità, sensualità e funzionalità, accostato al mito, alla storia, al robot e infine alla natura, esso esce dalla Biennale certamente affaticato ma riscoperto.
“The Milk of Dreams” propone un ripensamento della centralità dell’uomo (inteso sia come specie che come genere) nella storia dell’arte e della cultura contemporanea, per mezzo di atti di coraggio, di fantasia e di trasformazione. Come dichiarato dalla Alemani: “Dobbiamo riflettere ulteriormente sulla storia e su chi ha fatto parte di quella storia e chi è stato escluso”.